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Aprile-Giugno 2024
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“Oftalmologia Sociale” è una rivista di sanità pubblica, la pubblicazione trimestrale dell’Agenzia Internazionale per la prevenzione della Cecità-IAPB Italia onlus.

 

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Gennaio-Marzo 2024
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“Oftalmologia Sociale” è una rivista di sanità pubblica, la pubblicazione trimestrale dell’Agenzia Internazionale per la prevenzione della Cecità-IAPB Italia onlus.

 

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Malattia di Stargardt (maculopatia di Stargardt)

I tuoi occhi

Malattie oculari

Malattia di Stargardt (maculopatia di Stargardt)

Cos’è?

Fondo oculare di malato di Stargardt

La malattia (o maculopatia) di Stargardt è una patologia ereditaria della retina che si manifesta generalmente entro le prime due decadi di vita, ma i sintomi possono presentarsi anche nell’età adulta. È la più frequente distrofia maculare ereditaria ad esordio giovanile con una prevalenza di circa 1:8000–10.000; uomini e donne sono colpiti in egual misura. . Il più delle volte viene trasmessa in forma autosomica recessiva (entrambi i genitori presentano il difetto genetico, pur potendo essere portatori sani) ma sono stati descritti anche casi di forme autosomiche dominanti (un solo genitore trasmette il difetto del DNA).

Da cosa è causata?

La malattia è provocata da una mutazione di un gene (ABCA4), localizzato sul braccio corto del cromosoma 1 (1p21-13). Tale gene codifica per una proteina trans-membrana coinvolta nel trasporto dei retinoidi dai fotorecettori all’EPR (epitelio pigmentato retinico). L’alterazione di questo trasporto comporta l’accumulo di materiale di scarto ( lipofuscina) nella retina che si pensa possa essere dannoso per l’EPR con secondaria degenerazione dei fotorecettori ( coni ebastoncelli).

Quali sono i sintomi e i segni della malattia di Stargardt?

Il sintomo principale consiste  nella riduzione dell’acuità  visiva centrale monolaterale che può iniziare durante l’adolescenza o anche nell’infanzia, con rapida estensione bilaterale. Inoltre, chi ne è affetto può lamentare disturbi nella percezione dei colori (discromatopsia), scotomi centrali (macchie nere nel campo visivo) e fotofobia (intolleranza alla luce). Lo studio del fondo oculare evidenzia negli stati iniziali della malattia minime alterazioni dell’EPR, con comparsa delle tipiche chiazzette bianco-giallastre (“flecks”), che tendono poi a confluire fino a provocare una maculopatia di tipo atrofico con aspetto a “bronzo battuto”.

Come si effettua la diagnosi?

La diagnosi si effettua attraverso una visita specialistica completa. In particolare, l’oculista dovrà eseguire un’attenta valutazione dell’acuità visiva e l’esame del fondo oculare per evidenziare le anomalie maculari caratteristiche della malattia. È fondamentale eseguire anche degli esami strumentali di approfondimento, ossia: la tomografia a coerenza ottica (OCT), l’autofluorescenza del fondo oculare (FAF), la fluorangiografia (FAG) che può evidenziare il segno tipico segno della “dark choroid” dovuto all’effetto schermo esercitato dalle chiazzette, l’elettroretinogramma (ERG) che può risultare normale nelle prime fasi della malattia per poi mostrare delle alterazioni nelle fasi più avanzate, il campo visivo che di solito presenta difetti assoluti centrali. L’analisi molecolare del gene ABCA4 conferma la diagnosi.

Ci sono malattie sistemiche associate alla Stargardt?

No, non sono stati descritti casi di altre malattie sistemiche associate.

Che terapie sono disponibili?

Al momento non ci sono terapie efficaci per bloccare la progressione della malattia o poter guarire dal danno già esistente ( si stanno comunque portando avanti protocolli sperimentali relativi alla terapia genica e allo sviluppo di nuovi farmaci).  Tuttavia, si possono adottare alcune misure per cercare di rallentare l’evoluzione della degenerazione retinica, come: l’utilizzo di occhiali scuri con filtri UV per evitare l’esposizione eccessiva alla luce solare, l’assunzione di appositi integratori per via orale (da evitare l’assunzione di quelli contenenti vitamina A). Infine, è di grande aiuto l’utilizzo di ausili per ipovedenti che permettono di sfruttare al meglio ciò che resta della vista (residuo visivo). Anche la riabilitazione visiva consente di avere risultati soddisfacenti, con eventuali sedute di fotostimolazione e un supporto psicologico.

 

Scheda informativa a cura dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità-IAPB Italia onlus 
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Pagina pubblicata il 14 novembre 2007. Ultimo aggiornamento: 24 agosto 2023. 

Ultima revisione scientifica: 24 agosto 2023. 

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OCT (Optical Coherent Tomography)

I tuoi occhi

Esami e interventi

OCT (Optical Coherent Tomography)

(tomografia a coerenza ottica)

Cos’è?

Tomogramma

È un esame diagnostico per immagini: permette di analizzare la retina e, in particolare, la macula (area centrale del tessuto retinico che ci consente di leggere, vedere i volti, ecc.) e del nervo ottico.
Si tratta pertanto di un’indagine molto utile per la diagnosi ed il follow-up di diverse patologie oculari
In particolare, l’oct della macula (vedi figura sopra), è in grado di fornire una serie di immagini in sezione trasversale della retina, contenenti informazioni preziose sul suo spessore, sulla sua conformazione e sul rapporto tra i vari strati che la compongono.

Come funziona?

L’ OCT si basa su una tecnica di misurazione ottica chiamata interferometria a bassa coerenza. Il principio di funzionamento è simile a quello dell’ecografia (dove però le onde sono acustiche): in pratica, sfruttando la riflessione di un fascio laser non nocivo, si riesce ad  analizzare le strutture oculari ottenendo delle sezioni.  . È comunque un esame più preciso di quello ecografico perché, grazie agli apparecchi di ultima generazione, consente di ottenere  una risoluzione elevata (nell’ordine dei micrometri) e quindi  un livello di dettaglio superiore.

Qual è la procedura?

oct

Si eseguono delle scansioni mediante strumentazioni computerizzate, che consentono di ottenere un’immagine dettagliata della singole strutture oculari. A livello retinico, ad esempio, si possono apprezzare e analizzare  i singoli strati attraverso un’analisi qualitativa e quantitativa: si rilevano con estrema precisione  eventuali alterazioni, soprattutto della macula. Le fotografie retiniche scattate a diverse profondità sono chiamate “tomogrammi”.

Si tratta di un esame invasivo?

Assolutamente no. Si tratta di un esame rapido e semplice, che non necessita dell’instillazione del collirio midriatico (senza dilatazione della pupilla) né la somministrazione di mezzo di contrasto. Le scansioni OCT, come già anticipato in precedenza, possono essere utilizzate per la diagnosi e il monitoraggio di patologie che colpiscono la retina centrale (la macula), il nervo ottico e la cornea.

Come si esegue l’esame e quanto dura?

Il paziente viene fatto posizionare di fronte allo strumento ed invitato dall’operatore a fissare una mira luminosa. Le scansioni vengono eseguite piuttosto rapidamente ed infatti l’esame dura circa 15 minuti. Le immagini ottenute, possono essere analizzate, archiviate e confrontate nel tempo con quelle di esami successivi.

Per quali patologie è indispensabile effettuare l’OCT?

Optical Coherent Tomography
Optical Coherent Tomography

L’OCT viene usato più frequentemente nelle seguenti patologie:

  • degenerazione maculare legata all’età (AMD)
  • retinopatia diabetica 
  • membrane epiretiniche (pucker maculari)
  • edema maculare di varia natura 
  • corioretinopatia sierosa centrale (vedi maculopatia)
  • fori maculari (in questo caso l’OCT permette di riconoscere i diversi stadi evolutivi ed è, quindi, utile anche per la prognosi).

Ad oggi, l’OCT, è diventato un esame estremamente importante anche per quanto riguarda la diagnosi e lo studio dell’evoluzione della patologia glaucomatosa, consente infatti di misurare lo spessore dello strato delle fibre nervose retiniche (RNFL) e valutare i vari parametri della papilla ottica, ad esempio l’escavazione. Una diminuzione dello spessore delle fibre nervose retiniche e un aumento dell’escavazione papillare sono considerati segni precoci di glaucoma.

L’OCT del segmento anteriore viene invece utilizzato per lo studio dell’angolo irido-corneale, delle distrofie e degenerazioni corneali, delle neoformazioni del segmento anteriore. Consente, inoltre, di eseguire la pachimetria corneale, ovvero la misurazione dello spessore della cornea, sia centrale che periferico, dato fondamentale nella diagnosi di glaucoma, ma utile anche nei pazienti affetti da patologie corneali, quali ad esempio il cheratocono, o in quei pazienti che vogliano sottoporsi a chirurgia refrattiva.

Si può considerare esame sostitutivo alla fluorangiografia?

No. Infatti l’OCT è complementare alla fluorangiografia, soprattutto per patologie dove è importante valutare il comportamento del mezzo di contrasto nel tempo ad esempio nelle maculopatie essudative, in alcuni casi di corioretinopatia sierosa centrale o nei casi di dubbia diagnosi. Quindi completa, ma non sostituisce, l’esame obiettivo oftalmoscopico e la fluorangiografia. Da alcuni anni è disponibile anche un esame strumentale  che consente di studiare i vasi senza utilizzare il mezzo di contrasto:  l’angiografia OCT (abbreviata con angio-OCT).

Si può effettuare sempre?

Si può effettuare quasi sempre, tranne seguenti casi:

  1. opacizzazione dei mezzi diottrici oculari (ad esempio cataratta avanzata), opacità massive della cornea ( èdema o leucomi), presenza di sangue o olio di silicone nella camera vitrea;
  2. instabilità della fissazione (come il nistagmo): può rendere molto difficile il corretto posizionamento della scansione e, quindi, il confronto con un esame ripetuto in un secondo momento.

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Pagina pubblicata il 17 dicembre 2008. Ultimo aggiornamento: 13 giungo 2023. 

Ultima revisione scientifica: 13 giugno 2023. 

Distrofie retiniche

I tuoi occhi

Malattie oculari

Distrofie retiniche

cosa sono le distrofie retiniche?

Le distrofie retiniche sono un gruppo eterogeneo di patologie oculari rare, la maggior parte delle quali ha un’origine genetica. Sono caratterizzate da un’alterazione morfofunzionale che si sviluppa a seguito di modificazioni del normale trofismo retinico. Possono colpire non solo la retina, ma anche la coroide, provocando gravi danni visivi. Ad oggi sono riconosciute clinicamente diverse forme di distrofia retinica, differenti tra di loro per età d’insorgenza, manifestazioni cliniche, gravità, rapidità evolutiva e tipo di ereditarietà.

Normal human retina

COSA SONO LE MALATTIE RARE?

Per malattie rare s’intende un gruppo eterogeneo di patologie che colpiscono l’uomo, definite tali per la loro bassa prevalenza nella popolazione. Viene infatti considerata rara, ogni malattia che colpisce non più di 5 abitanti su 10.000.

Circa l’80% dei casi è di origine genetica, mentre per il restante 20% si parla di malattie multifattoriali, dipendenti cioè da svariate cause come ad esempio: suscettibilità individuale, fattori ambientali, fattori alimentari o interazione tra cause genetiche e ambientali.

Le malattie rare possono colpire varie fasce d’età, alcune possono manifestarsi già in fase prenatale, altre alla nascita o durante la primissima infanzia, altre ancora in età adulta. Gli elementi principali che accomunano le malattie rare sono: diagnosi difficoltosa e non sempre raggiungibile in tempi brevi, andamento cronico, rara disponibilità di trattamenti terapeutici efficaci. Lo scopo della ricerca scientifica è quindi quello di approfondire sempre di più le possibili cause delle malattie rare, in modo da riuscire a sviluppare terapie nuove ed efficaci.

QUALI SONO LE CAUSE DELLE DISTROFIE RETINICHE?

Come accennato in precedenza, le cause delle anomalie che colpiscono la retina, sono per la maggior parte da ricercarsi in mutazioni genetiche trasmissibili su base ereditaria. È sicuramente molto complicato isolare le alterazioni genetiche responsabili delle varie malattie, anche se ad oggi sono stati fatti molti passi in avanti e si è riusciti ad identificare mutazioni in più di 270 geni diversi. Il sottogruppo più frequente è quello della famiglia delle retiniti pigmentose caratterizzate da percezione luminosa ridotta e riduzione progressiva del campo visivo. Le conoscenze sui meccanismi patogenetici di queste malattie si sono notevolmente incrementate grazie alle tecniche sempre più avanzate di genetica molecolare.

Il denominatore comune di tutte le distrofie retiniche è l’estrema eterogeneità. Lo spettro di presentazione è quanto mai ampio, anche nei membri di una stessa famiglia; velocità di progressione e severità variano tantissimo, così come il quadro clinico che può differire profondamente in pazienti affetti dalla stessa patologia. L’eterogeneità riguarda anche gli aspetti genetici. Esiste una sorta di “sovrapposizione” tra quadri clinici e geni responsabili, infatti, uno stesso gene può dare origine a forme cliniche estremamente diverse fra loro.

QUALI SONO I SINTOMI?

I pazienti affetti da distrofia retinica possono presentare una serie di sintomi visivi, come ad esempio:

  • comparsa di macchie scure nel campo visivo (scotomi);
  • calo del visus;
  • difficoltà di adattamento nel passaggio dalla luce al buio;
  • comparsa di metamorfopsie (percezione distorta o deformata degli oggetti, che indica alterazioni a livello della parte centrale della retina, ossia la macula);
  • fastidio alla luce (fotofobia);
  • anomala percezione dei colori;
  • alterazioni del campo visivo.

COME SI EFFETTUA LA DIAGNOSI?

distrofie retiniche

Le distrofie retiniche possono essere diagnosticate in molti modi. Spesso l’esame diretto ed accurato del fondo oculare può già fornire informazioni rilevanti per una diagnosi precisa e affidabile, in altri casi, saranno necessari esami strumentali complementari per comprendere al meglio le caratteristiche della malattia: l’autofluorescenza e l’OCT (tomografia a coerenza ottica) permettono di eseguire un esame accurato della morfologia oculare, esami come l’elettroretinogramma (ERG), l’elettrooculogramma (EOG) e i potenziali evocati visivi (PEV), consentono di valutare/approfondire la situazione a livello funzionale. In presenza di dubbio diagnostico o per una conferma finale, si può far ricorso all’indagine genetica per rilevare la presenza del gene o dei geni mutati, responsabili dello sviluppo della malattia.

In caso di cecità retinica congenita, oltre agli esami già indicati, può essere eseguita una RMN dell’encefalo per escludere ulteriori problematiche a livello del sistema nervoso centrale.

CLASSIFICAZIONE CLINICA DELLE DISTROFIE RETINICHE

Si riconoscono diverse forme di distrofie retiniche, le principali sono le seguenti:

  • amaurosi congenita di Leber;
  • distrofia dei coni e dei bastoncelli;
  • distrofia ialina della retina;
  • distrofia vitelliforme di Best;
  • distrofia vitreoretinica;
  • malattia di Stargardt;
  • retinite pigmentosa;
  • retinite puntata albescente.

AMAUROSI CONGENITA DI LEBER?

L’amaurosi congenita di Leber (ACL) è una malattia genetica che colpisce la retina e si trasmette con modalità autosomica recessiva. La ACL provoca cecità o grave riduzione dell’ acuità visiva centrale fin dalla primissima infanzia, infatti in genere l’esordio è entro i primi sei mesi di vita. Gran parte delle persone affette dalla Leber presentano segni e sintomi caratteristici, come nistagmo, fotofobia, cecità notturna, strabismo convergente, alterazione della percezione dei colori, ipermetropia, alterazioni del campo visivo, cheratocono.

Per una trattazione più dettagliata consulta anche la scheda sull’ amaurosi congenita di Leber.

DISTROFIA DEI CONI E DEI BASONTCELLI

La distrofia dei coni e dei bastoncelli è una grave forma di malattia retinica che colpisce i fotorecettori, le cellule nervose dell’occhio che trasformano il segnale luminoso in segnale elettrico per generare poi la risposta visiva. Ci sono due tipi di fotorecettori, i coni e i bastoncelli, i primi sono concentrati nella parte centrale della retina e sono deputati alla visione dei colori e alla visione distinta, i secondi si concentrano invece nella zona periferica della retina e sono utilizzati per la visione al buio. La distrofia dei coni e dei bastoncelli, compare nei primi sei mesi di vita, può portare a cecità o ipovisione ed è caratterizzata dalla contestuale presenza di nistagmo. Di solito la patologia non si associa a malformazioni o disfunzioni a carico di altri organi e apparati. A livello sintomatologico i piccoli pazienti presentano una progressiva diminuzione della visione centrale e della capacità di distinguere i colori, oltre ad una spiccata fotofobia. Ad oggi, sono stati identificati una decina di geni associati alla distrofia dei coni e alle sue varianti, quello più frequentemente coinvolto è ABCA4, che causa anche la malattia di Stargardt, ed ha una trasmissione di tipo autosomico-recessivo (per manifestare i sintomi occorre ereditare la mutazione genetica da ciascuno dei genitori, entrambi portatori sani).

Purtroppo, ad oggi, non esiste alcuna terapia risolutiva, per attenuare i disturbi visivi è possibile utilizzare lenti dotate di filtri per proteggersi dalla luce. Gli ausili per ipovedenti possono essere utili se l’acuità visiva è piuttosto ridotta.

DISTROFIA IALINA DELLA RETINA

La distrofia ialina della retina è caratterizzata dalla perdita graduale della vista, cecità notturna e presenza di segni oculari caratteristici quali alterazioni del corpo vitreo, retinoschisi maculare, atrofia corioretinica, sviluppo precoce della cataratta, distacco di retina. La malattia colpisce in ugual misura sia maschi che femmine e si manifesta clinicamente entro i primi venti anni d’età, ma l’ERG può risultare estinto o fortemente alterato già entri i primi anni di vita. La trasmissione è autosomica recessiva. Non è disponibile al momento una terapia, può essere indicato eseguire dei trattamenti laser retinici per prevenire il distacco di retina.

DISTROFIA VITELLIFORME DI BEST

La distrofia vitelliforme di Best è una patologia ereditaria della retina. Viene trasmessa in forma autosomica dominante (un genitore trasmette il difetto genetico al figlio o alla figlia). La malattia è causata da una mutazione di un gene (chiamato VMD2, localizzato sul cromosoma 11q13), che nella retina regola il trasporto di determinate sostanze (acidi grassi polinsaturi) e comporta l’accumulo di un materiale di scarto biologico (lipofuscina) in uno strato della retina chiamato epitelio pigmentato retinico. I sintomi consistono nella riduzione della vista generalmente in forma lieve, con una progressione lenta. I pazienti riferiscono disturbi maggiori nelle visione da vicino, a cui si possono accompagnare la distorsione dell’immagine e gli scotomi centrali (macchie nere nel campo visivo).

Per un approfondimento leggi anche la scheda sulla malattia di Best.

MALATTIA DI STARGARDT

La malattia (o maculopatia) di Stargardt è una patologia ereditaria della retina che si manifesta generalmente prima dei vent’anni. Il più delle volte viene trasmessa in forma autosomica recessiva (entrambi i genitori presentano il difetto genetico pur potendo essere portatori sani), ma sono stati descritti anche casi di forme autosomiche dominanti (un solo genitore trasmette il difetto del DNA). La malattia è provocata da una mutazione di un gene (ABCA4), che comporta l’accumulo di materiale di scarto (simile alla lipofuscina) nella retina (in uno strato esterno chiamato epitelio pigmentato). Questo materiale è originato dalla degradazione di sostanze presenti nei coni e nei bastoncelli (fotorecettori retinici). I sintomi, consistono soprattutto nella riduzione della visione centrale (spesso in forma grave) che può iniziare durante l’adolescenza o anche nell’infanzia. Inoltre, chi ne è affetto può lamentare disturbi nella percezione dei colori (discromatopsia), scotomi centrali (macchie nere nel campo visivo) e fotofobia (intolleranza alla luce).

Consulta anche la scheda sulla malattia di Stargardt.

RETINITE PIGMENTOSA

Si tratta di una patologia rara di tipo ereditario, caratterizzata da una degenerazione progressiva della retina in entrambi gli occhi. Provoca la perdita graduale della visione notturna e del campo visivo periferico, ma agli ultimi stadi si può verificare anche una perdita della visione centrale. I principali sintomi che possono indurre il medico a sospettare di trovarsi di fronte ad un caso di retinite pigmentosa sono essenzialmente due: cecità crepuscolare e notturna e restringimento del campo visivo (visione tubulare).

Per un approfondimento consulta la scheda sulla retinite pigmentosa.

RETINITE PUNTATA ALBESCENTE

La retinite puntata albescente è una forma atipica e progressiva di retinite pigmentosa, con modalità di trasmissione autosomica recessiva, caratterizzata dalla presenza di chiazzette retiniche biancastre. Tali chiazzette, sparse su tutta la retina, possono precedere o coesistere con la pigmentazione tipica della retinite pigmentosa. I sintomi caratteristici della malattia sono la cecità notturna e il restringimento progressivo del campo visivo, l’ ERG può risultare fortemente alterato o estinto. Purtroppo non esistono ad oggi trattamenti terapeutici efficaci.

E’ POSSIBILE CURARE LE DISTROFIE RETINICHE?

Attualmente non ci sono delle terapie per la cura delle distrofie retiniche. Sono molte però le strade di ricerca aperte, i filoni più promettenti sono la terapia genica, il ricorso alle cellule staminali, il trapianto di retina, l’occhio bionico. 

Leggi anche: Trattamenti possibili delle distrofie retiniche.

                        Riabilitazione visiva nelle distrofie retiniche.

 

Pagina pubblicata nel 2023. Ultimo aggiornamento: 23 giugno 2023. 

Ultima revisione scientifica:23 giugno 2023. 

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Cataratta congenita

I tuoi occhi

Malattie oculari

Cataratta congenita

Cos’è?

Cataratta congenita Si tratta di una patologia che colpisce il cristallino, la lente contenuta all’interno del nostro occhio, rendendolo opaco già alla nascita o entro i primi 3 mesi di vita. Le opacità possono essere di dimensioni limitate ed in tal caso interferiscono poco o affatto sulla visione, oppure possono presentarsi come estese e dense, andando ad incidere molto sul visus.  La cataratta congenita può rimanere stabile o evolversi nel corso degli anni, può inoltre interessare un solo occhio (cataratta congenita monolaterale) o entrambi (cataratta congenita bilaterale).

Quant’è frequente?

Ancora oggi rappresenta una delle cause più frequenti di cecità nell’infanzia (10-15%). In circa i 2/3 dei casi sono coinvolti entrambi gli occhi (cataratta bilaterale congenita).

Quali sono le cause?

Stabilire la causa dell’opacità del cristallino è fondamentale per un completo inquadramento clinico, però diversi sono i fattori che possono essere responsabili di una cataratta congenita:

  1. causa idiopatica (non dovuta a cause esterne note ovvero senza causa apparente);
  2. fattori genetici: la trasmissione ereditaria più frequente è quella autosomica dominante.  Talvolta l’eziologia può essere un’alterazione cromosomica, come la trisomia 21 o sindrome di Down, la trisomia 13, la trisomia 18, la sindrome di Turner;
  3. esposizione della madre durante la gravidanza a trattamenti con raggi X, con particolare rischio se praticata durante i primi 3 mesi di gravidanza;
  4. infezioni contratte dalla madre durante la gravidanza, come rosolia, parotite e varicella;
  5. farmaci assunti dalla madre durante la gravidanza, soprattutto corticosteroidi e alcuni antibiotici (specialmente i sulfamidici);
  6. alterazioni metaboliche dovute – nelle madri incinte – a diabete, ipoparatiroidismo o gravi carenze alimentari e – nel feto – alla galattosemia (malfunzionamento di un enzima capace di metabolizzare il galattosio);
  7. anomalie  dell’iride, quali aniridia(assenza congenita dell’iride, completa o quasi, in entrambi gli occhi), alterazioni delle strutture anatomiche anteriori dell’occhio, persistenza del vitreo primitivo iperplastico (di solito l’occhio colpito è più piccolo della norma e ha problemi funzionali), microftalmo (malattia ereditaria per cui l’occhio è, anche in questo caso, più piccolo del normale) e retinopatia del prematuro (ROP );
  8. la prematurità e la sofferenza feto-neonatale;
  9. malattie sistemiche associate del neonato (artrite reumatoide, sindrome di Marfan, sindrome di Weill-Marchesani e malformazioni cranio-facciali).

Di che tipo di opacità si tratta?

Come già anticipato in precedenza le opacità del cristallino possono essere singole o multiple, con dimensioni più o meno estese e di diversa densità. In base a come si presenta l’opacità del cristallino possiamo classificare la cataratta congenita in:

  • polare anteriore;
  • polare posteriore;
  • pulverulenta;
  • centrale pulverulenta;
  • zonulare;
  • totale.

Come si esegue la diagnosi di cataratta congenita? 

Se si sospetta la presenza di una cataratta congenita, si può fare il testdel riflesso rosso. Si tratta di un esame piuttosto veloce e non invasivo, da eseguire  in una stanza oscurata, per consentire un buon allargamento delle pupille del neonato. Il medico esaminatore proietta una luce in entrambi gli occhi del piccolo paziente da una distanza di circa 45 cm, dopodiché osserva come si presenta il riflesso rosso. In condizioni di normalità tale riflesso deve essere presente e simmetrico in ambedue gli occhi. Se si evidenziano invece macchie nere nel riflesso, un riflesso marcatamente diminuito, la presenza di un riflesso bianco o l’asimmetria dei riflessi, vuol dire che siamo in presenza di un’anomalia e che è necessario un approfondimento con visita completa per una conferma diagnostica.

Sintomi della cataratta congenita 

Le opacità estese e molto dense del cristallino determinano un’ambliopia più o meno grave (occhio pigro), in quanto impediscono il normale  sviluppo funzionale dell’apparato visivo, che avviene proprio nei primi mesi di vita grazie alla stimolazione delle vie ottiche ad opera delle immagini provenienti dall’esterno. Generalmente sono gli stessi genitori a segnalare la presenza di un riflesso pupillare biancastro (leucocoria) o l’assenza del classico riflesso rosso in fotografia. Se la cataratta è monolaterale, oltre all’ambliopia si sviluppa generalmente strabismo. In presenza di cataratta bilaterale evoluta un segno tipico può essere il nistagmo che insorge intorno ai 3 mesi di età. Risulta fondamentale, quindi, una diagnosi precoce: prima si interverrà e più possibilità di recupero funzionale visivo ci saranno.

Si può curare?

parto prematuro Sì, generalmente è trattabile con un’operazione chirurgica. Ovviamente alcune cataratte infantili che non interferiscono sulla capacità visiva, in quanto piccole o poco dense, non richiedono la chirurgia.

Qual è la terapia più adatta?

Se la cataratta ostacola in maniera grave lo sviluppo della funzione visiva è fondamentale intervenire chirurgicamente il più presto possibile, asportando il cristallino opacizzato. Si consiglia di effettuare l’intervento entro i primi 3 mesi di vita. In prospettiva si potrebbero utilizzare persino cellule staminali del cristallino stesso per “rigenerarlo“ (vedi Nature); tuttavia quest’approccio, al momento in cui scriviamo è da considerarsi meramente sperimentale e attualmente privo di applicazioni cliniche.

Il cristallino asportato viene sostituito con un cristallino artificiale come nella cataratta senile?

Generalmente si preferisce inserire la lentina artificiale se il bambino ha più di 18 mesi. Fino ad allora si deve proseguire con un trattamento riabilitativo, in quanto l’occhio senza cristallino vede ovviamente male; a questo scopo si utilizzano occhiali adeguati o, se la cataratta riguarda un solo occhio, una lente a contatto morbida. La terapia chirurgica rappresenta, quindi, solo il primo passo di un lungo percorso terapeutico

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Pagina pubblicata il 10 dicembre 2010. Ultimo aggiornamento:18 aprile 2023 

Ultima revisione scientifica: 18 aprile 2023 

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Settembre-Dicembre 2023
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Luglio-Ottobre 2023
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Aprile-Giugno 2023
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Glaucoma

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Malattie oculari

Glaucoma

Cos’è?

glaucoma

Il glaucoma è una patologia cronica, progressiva ed irreversibile, caratterizzata da un danno dello strato delle cellule nervose retiniche e della testa del nervo ottico con conseguente danno del campo visivo,  correlata a una pressione dell’occhio troppo elevata. Nel glaucoma, considerata ormai una patologia neurodegenerativa a tutti gli effetti, si verifica la morte di una specifica popolazione di cellule della retina, le cellule ganglionari. La funzione di queste cellule, in un occhio sano, è quella di ricevere ed elaborare il segnale che arriva dai fotorecettori (le cellule della retina deputate alla percezione delle immagini) ed inviarlo al cervello mediante i propri prolungamenti, detti assoni, il cui insieme costituisce il nervo ottico. La disabilità visiva provocata dal glaucoma (compresa l’ipovisione) si può prevenire purché la malattia sia diagnosticata e curata tempestivamente.

Epidemiologia 

Il glaucoma è tra le principali cause di cecità nel mondo. Si stima che nei soggetti tra i 40 e gli 80 anni la prevalenza del glaucoma ad angolo aperto sia del 3,5%, mentre quella del glaucoma da chiusura d’angolo dello 0,5%. Secondo l’OMS ne sono affette circa 76 milioni di persone nel mondo [1]. Si tratta della seconda causa di cecità a livello planetario dopo la cataratta, ma è la prima a carattere irreversibile [2]; in Italia si stima che colpisca circa un milione di persone. ma la metà di esse non ne sarebbero a conoscenza perché non effettuano visite oculistiche periodiche complete (con controllo del fondo oculare, del tono ovvero della pressione oculare e del campo visivo). L’etnia influenza la prevalenza del glaucoma, considerando che il glaucoma ad angolo aperto è maggiormente diffuso  nei soggetti di etnia nera, mentre il glaucoma da chiusura d’angolo è più prevalente nelle popolazioni dell’Asia orientale.

Fattori di rischio

Pressione intraoculare: rappresenta il fattore di rischio più importante per lo sviluppo e la progressione del glaucoma, nonché l’unico bersaglio per le terapie attualmente a disposizione. La misurazione della pressione intraoculare rappresenta un cardine della valutazione iniziale e del follow-up dei pazienti con glaucoma o a rischio di svilupparlo (vedi “diagnosi”). Avere un alto valore di pressione intraoculare non significa avere il glaucoma; sebbene sia opinione comune che il glaucoma sia associato ad un’elevata pressione intraoculare, molti pazienti con pressione considerata elevata (> 21 mmHg) non sviluppano necessariamente la malattia, mentre soggetti con pressione considerata “normale” possono sviluppare il cosiddetto “glaucoma a bassa pressione”.

Età: rappresenta un fattore di rischio sia per lo sviluppo che per la progressione della malattia. Il glaucoma è raro prima dei 40 anni e colpisce generalmente individui di età più avanzata. Secondo alcune stime il glaucoma colpisce il 3,54% delle persone di età compresa tra i 40 e gli 80 anni [3]. La prevalenza della malattia cresce quindi significativamente all’aumentare dell’età della popolazione considerata.

Etnia: i soggetti di etnia afro-americana mostrano un’incidenza maggiore di glaucoma primario ad angolo aperto, mentre le popolazioni asiatiche mostrano una maggiore incidenza di glaucoma da chiusura d’angolo.

Familiarità: i parenti di primo grado di soggetti affetti da glaucoma sono più a rischio di svilupparlo, rispetto alla popolazione generale.

Miopia moderata/elevata.

Diabete.

Ipertensione e ipotensione sistemica.

Spessore corneale ridotto (non rappresenta un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo o la progressione del glaucoma).

Rappresentano inoltre fattori di rischio per lo sviluppo di glaucoma primario da chiusura d’angolo: l’età avanzata, la familiarità, il sesso femminile e l’ipermetropia.

COME SI PRODUCE L’AUMENTO DELLA PRESSIONE OCULARE?

In condizioni normali all’interno dell’occhio è presente un liquido (umore acqueo) che viene continuamente prodotto e riassorbito. Pertanto, l’occhio si può paragonare a un piccolo serbatoio con un rubinetto e una via di deflusso sempre aperti. Se quest’ultima è però ostruita si avrà un aumento di pressione all’interno del serbatoio ovvero una maggiore pressione intraoculare. Se la pressione è troppo elevata, a lungo andare il bulbo oculare si danneggia a livello della testa del nervo ottico (ossia la papilla ottica che si trova nella zona centrale della retina). Dato che si tratta di danni irreversibili, è fondamentale evitarli mediante un’opportuna terapia.

COME SI PRODUCE IL DANNO ALLA VISTA?

Noi percepiamo percepiamo un oggetto che fissiamo insieme a tutto ciò che lo circonda: l’area complessivamente percepita costituisce il campo visivo. L’immagine viene trasmessa dalla retina al cervello tramite il nervo ottico, che si può paragonare a un cavo elettrico contenente milioni di fili. Ciascuno di essi trasporta le immagini relative a una parte del campo visivo: le traduzioni di questi segnali bioelettrici vanno a costituire l’immagine nella sua interezza.

 L’aumento della pressione oculare può danneggiare irreparabilmente i neuroni che trasportano il segnale bioelettrico; dunque è come se si logorassero. In particolare, la morte delle cellule ganglionari retiniche comporta la mancata comunicazione tra i fotorecettori ed il cervello, determinando una perdita di campo visivo più o meno estesa, a seconda dell’entità del danno. Esiste infatti una corrispondenza topografica per cui la perdita di cellule ganglionari in una specifica area della retina corrisponde alla perdita di una parte di campo visivo.

Inizialmente il danno colpisce i “fili” che trasportano le immagini relative alla periferia del campo visivo: chi è malato continua a vedere l’oggetto che fissa, ma non si accorge che l’area visiva periferica si sta riducendo progressivamente (con perdita della visione laterale). Da ultimo vengono lesi anche i “fili” che provengono da quella zona della retina con cui si fissano gli oggetti (macula) e, se il glaucoma non viene trattato con successo, si riduce in maniera drastica l’acuità visiva. Come accade in molte patologie neurodegenerative, il danno da glaucoma non è reversibile e può esitare in cecità subtotale o totale.

Sintomi della pressione oculare alta

Nelle varie forme di glaucoma, ad eccezione di quello acuto, la malattia insorge e si sviluppa senza che il paziente avverta sintomi particolari. Quando il soggetto si rende conto di non vedere bene nella parte periferica del proprio campo visivo, purtroppo i danni a carico delle fibre del nervo ottico sono già presenti. La visione centrale di solito è ben conservata, il visus può essere anche pari a 10/10, ma il paziente ha evidenti difficoltà nello svolgimento di azioni che sfruttano la parte periferica del campo visivo (come scendere le scale, guidare, attraversare la strada, ecc.).

I sintomi che possono comunque presentarsi in caso di pressione alta all’occhio sono:

  • dolore agli occhi (localizzato in particolare sul sopracciglio);
  • occhi arrossati;
  • mal di testa;
  • vista offuscata;
  • aloni intorno alle luci;
  • nausea;
  • vomito;
  • midriasi;
  • fotofobia;
  • lacrimazione.

Quali tipi di glaucoma esistono?

Con il termine glaucoma si indica un gruppo di patologie a diversa eziologia e con decorso clinico eterogeneo. A scopo meramente classificativo, si possono distinguere i glaucomi in due grandi famiglie: i glaucomi ad angolo aperto e i glaucomi da chiusura d’angolo; i quali differiscono significativamente per meccanismo patogenetico e per decorso clinico.

    • GLAUCOMI AD ANGOLO APERTO

    Glaucoma primario ad angolo aperto (POAG)

    Rappresenta la forma più comune di glaucoma nei paesi occidentali, è caratterizzata da un angolo irido-corneale di normale ampiezza. I principali fattori di rischio sono rappresentati da una   pressione intraoculare (IOP) elevata e dall’età avanzata. La patogenesi del danno da POAG è, ad oggi, ancora incerta: si ritiene che la pressione intraoculare elevata, in concomitanza ad alterazioni vascolari, abbia un ruolo nell’induzione della morte delle cellule ganglionari retiniche e dei loro assoni, probabilmente ostacolando il normale trasporto assonale che avviene in queste cellule. L’aumento progressivo della pressione intraoculare sembra essere invece determinato da un aumento della resistenza a livello del trabecolato, ossia la parte dell’occhio deputata al filtraggio e allo “scarico” dell’umor acqueo: l’alterazione del trabecolato (dovuta all’età, allo stress ossidativo o ad altri fattori sconosciuti) comporta quindi una maggior difficoltà  a drenare il liquido presente nell’occhio con conseguente incremento della pressione oculare .

    Una distinzione piuttosto arbitraria è stata proposta per dividere i POAG in base al livello di pressione intraoculare, esistono infatti i cosiddetti POAG a pressione elevata e i POAG a pressione normale: nel caso di questi ultimi i pazienti presentano livelli di pressione intraoculare considerati “normali” (di solito < 20 mmHg), oltre ad avere delle caratteristiche cliniche peculiari. Si ritiene che nel caso dei POAG a pressione normale, i fattori di rischio diversi dalla pressione intraoculare elevata abbiano un peso specifico diverso nel determinare l’inizio e il peggioramento della malattia; tuttavia i principi di trattamento rimangono gli stessi (vedi sezione “terapia”).

     

    POAG sospetto ed ipertensione oculare

    Può sembrare paradossale, ma non sempre le visite e gli esami strumentali riescono a fornire una chiara indicazione sul fatto che il paziente possa essere sano o affetto da glaucoma. Una percentuale non trascurabile di pazienti infatti, soprattutto in fase iniziale di malattia, vengono considerati dei pazienti con sospetto glaucoma. Questi soggetti presentano uno o più segni clinici suggestivi per glaucoma, ad esempio un aspetto dei nervi ottici o un esame del campo visivo più o meno alterati, una pressione oculare borderline, misurazioni OCT che deviano dai valori normali; ma nessuno di questi esami è alterato in modo significativo o comunque in maniera concorde rispetto agli altri. Soltanto il tempo (ricordiamo come il glaucoma sia una malattia che peggiora nel tempo) e la ripetizione periodica dei suddetti esami di solito riescono a chiarire il quadro clinico del paziente. Sarà l’oculista a stabilire se, nel frattempo, il paziente dovrà eseguire una terapia o meno, in base ai dati a disposizione e ai fattori di rischio di ciascun soggetto.

    Soggetti con pressione oculare superiore ai valori considerati normali (> 21 mmHg) ma con nervo ottico sano, campo visivo normale, anatomia non suggestiva di possibile chiusura angolare e nessun altro fattore di rischio per glaucoma, sono definiti ipertesi oculari. Avere una pressione oculare elevata NON significa avere il glaucoma. Anche in questo caso, sarà l’oculista a valutare la necessità di una terapia e a programmare gli esami di follow-up, in base al rischio di conversione da ipertensione oculare a glaucoma.


    pressione oculare
    • Glaucomi secondari ad angolo aperto
  • Costituiscono un gruppo di patologie accomunate dal riscontro di un angolo irido-corneale aperto, dallo sviluppo di un danno al nervo ottico di tipo glaucomatoso e, cosa che le differenzia dai glaucomi primari, da una causa chiaramente responsabile dello sviluppo della malattia. Di seguito, verranno brevemente trattati soltanto i glaucomi secondari più frequenti.

    Glaucoma Pseudoesfoliativo: è il più frequente, ed è associato alla Sindrome Pseudoesfoliativa (detta anche PEX). È una situazione clinica caratterizzata dalla produzione di materiale furfuraceo da parte della superficie del cristallino che esfoliandosi intasa le vie di deflusso dell’umore acqueo (trabecolato) depositandosi a livello dell’angolo irido-corneale. Pertanto, nel tempo si determina un aumento della pressione intraoculare (IOP) e, di conseguenza, un glaucoma. Inoltre il materiale furfuraceo può depositarsi a livello dell’apparato di sospensione del cristallino al corpo ciliare (fibre zonulari), creando un indebolimento di tali fibre e una dislocazione del cristallino (sublussazione).

     

    Come si presenta la PEX?

    Può essere evidenziata dall’oculista durante l’esame obiettivo con la lampada a fessura (meglio ancora se con la pupilla dilatata). Si potrà ben vedere il deposito del materiale furfuraceo sulla faccia anteriore del cristallino, distribuito in maniera circolare in campo pupillare e in periferia, assente laddove l’iride compie un movimento di sfregamento.

     

    Quali sono gli aspetti caratteristici del glaucoma pseudoesfoliativo?

     

    Di solito colpisce entrambi gli occhi (ossia è bilaterale) e spesso le alterazioni riscontrate sono asimmetriche nei due occhi;

    valori della pressione oculare piuttosto elevati, che possono subire importanti fluttuazioni nell’ambito delle 24 ore;

    evoluzione abbastanza rapida;

    maggiore predisposizione allo sviluppo della cataratta;

    maggiore percentuale di complicanze durante e dopo gli interventi di cataratta;

    pupilla che si dilata con più difficoltà.

     

     

    Come si cura il glaucoma pseudoesfoliativo?

     

    Il  trattamento di prima scelta è quello di tipo farmacologico, con l’instillazione di colliri che servono ad abbassare la pressione oculare (ipotonizzanti). La terapia deve essere tempestiva ed efficace per cui, se non si ottengono buoni risultati, all’inizio è bene ricorrere a più somministrazioni quotidiane (eventualmente con farmaci diversi).

    Il trattamento laser (trabeculoplastica) riceve spesso una buona risposta anche se non duratura, nel qual caso occorre ricorrere all’approccio chirurgico tramite l’intervento di trabeculectomia.

    È bene eseguire la facoemulsificazione quando è presente la cataratta (anche se in fase iniziale) e spesso anche quando il cristallino è ancora trasparente.

    Tale intervento, infatti, può indurre un significativo abbassamento della pressione intraoculare. 
    Inoltre, se effettuato precocemente è meno rischioso, in quanto la pupilla ha ancora una buona capacità dilatativa, c’è un basso rischio di dislocazione del cristallino nel vitreo durante l’operazione e si semplifica, infine, l’eventuale intervento di trabeculectomia (più facile da eseguire se il cristallino è già stato asportato in precedenza).

    Vale la pena, infine, ricordare l’importanza di controlli regolari per chi avesse una sindrome pseudoesfoliativa, ma che non presenta ancora glaucoma. La misurazione periodica del tono, con esecuzione del campo visivo e della pachimetria nei casi sospetti (pressione oculare lievemente oltre i limiti della norma), aiuta a fare una diagnosi precoce e, quindi, a iniziare la giusta terapia prima che compaiano gravi danni oculari.
    • Glaucoma Pigmentario: associato alla sindrome da dispersione di pigmento. In questi pazienti, una particolare conformazione di alcune strutture intraoculari determina la liberazione di pigmento nell’umor acqueo, con conseguente alterazione della funzione trabecolare e incremento della pressione intraoculare. È più frequente nei maschi over 30. Alcune caratteristiche tipiche di questa condizione rendono generalmente agevole il riconoscimento di tale sindrome nei pazienti affetti da parte dell’oculista, che dovrà valutare la presenza o meno di glaucoma e la necessità o meno di una terapia. Le terapie e gli esami di follow-up sono gli stessi del POAG.
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    • Altri glaucomi secondari ad angolo aperto:
      • Glaucoma uveitico: associato ad uveiti infettive o non infettive
      • Glaucoma neovascolare: temibile conseguenza di patologie vascolari oculari o della retinopatia diabetica avanzata
      • Glaucoma indotto da alterazioni del cristallino (traumi o cataratte ipermature)
      • Glaucoma post-traumatico
      • Glaucoma post-chirurgico
      • Glaucoma da farmaci (in particolare dopo terapie cortisoniche prolungate).

     

    • GLAUCOMI DA CHIUSURA ANGOLARE

    Eterogeneo gruppo di condizioni patologiche che condividono, come principale responsabile dell’incremento della pressione intraoculare, e successivamente del danno glaucomatoso, l’apposizione della periferia iridea al trabecolato, la cosiddetta chiusura angolare. In questa condizione, il deflusso dell’umor acqueo attraverso il trabecolato viene ostacolato meccanicamente e si possono verificare quadri clinici più o meno severi ed eclatanti, dal glaucoma acuto alla chiusura angolare intermittente. I meccanismi patogenetici con i quali si innesca la chiusura angolare sono molteplici, il più frequente è il cosiddetto blocco pupillare (circa 2/3 dei casi), ossia il blocco del passaggio dell’umor acqueo attraverso il forame pupillare ; altri meccanismi di induzione della chiusura angolare sono riconducibili ad alterazioni dell’anatomia dell’iride (iris plateau), ad alterazioni a livello del cristallino, ad alterazioni nella porzione posteriore dell’occhio, o a somministrazione di farmaci o interventi di chirurgia oculare.

    I glaucomi da chiusura d’angolo sono meno frequenti nel mondo occidentale (vedi fattori di rischio), ma abbastanza frequenti per costituire una minaccia non trascurabile soprattutto in pazienti con determinati fattori di rischio, come l’ipermetropia. Il rischio di glaucoma da chiusura d’angolo deve essere sempre valutato dall’oculista durante le visite oculistiche di follow-up, perché in presenza di condizioni predisponenti, l’esecuzione di determinate procedure laser o chirurgiche (rispettivamente l’iridotomia laser e l’intervento di cataratta a scopo idrodinamico) possono abbattere o addirittura eliminare l’eventualità futura di una chiusura angolare.

    Di seguito, verrà brevemente trattata la chiusura angolare acuta (o glaucoma acuto), in quanto rappresenta la conseguenza clinica più eclatante di una chiusura angolare.

    • Chiusura angolare acuta: evento clinico drammatico, caratterizzato da valori molto elevati di pressione intraoculare (> 50 mmHg), sintomatologia tipica (dolore oculare acuto e intenso, cefalea frontale, riduzione dell’acuità visiva, nausea e vomito) e chiari segni riscontrabili all’esame dell’occhio (pupilla in media midriasi, edema corneale, camera anteriore periferica di profondità molto ridotta, iniezione pericheratica). Rappresenta una vera e propria emergenza oculistica e, se non trattata prontamente, può comportare un danno irreversibile della funzione visiva dell’occhio colpito. La terapia consiste in una combinazione di farmaci topici o sistemici per ridurre la pressione oculare e nell’esecuzione di una iridotomia laser o di pratiche chirurgiche più o meno invasive per eliminare il meccanismo di innesco della chiusura angolare.

     

    Glaucoma congenito: in questa forma della patologia oculare il sistema di drenaggio è “cattivo” sin dalla nascita. Per questo motivo si verifica un aumento di pressione intraoculare. Il bambino presenta fastidio alla luce (fotofobia) e lacrimazione eccessiva. L’aumento pressorio può causare un aumento delle dimensioni dell’occhio (nei piccoli le pareti oculari sono meno resistenti) e la cornea può divenire opaca. Ogni sintomo sospetto deve indurre i genitori ad andare dall’oculista per effettuare una visita di controllo. Questo tipo di glaucoma è però raro: colpisce un neonato ogni diecimila.

Diagnosi

L’unico modo per effettuare una diagnosi precoce di glaucoma è sottoporsi a una visita oculistica completa. L’oculista prima di procedere con la visita vera e propria dovrà inoltre raccogliere i dati anamnestici del paziente, per venire a conoscenza subito dei suoi disturbi e indagare se ci sono casi di glaucoma in famiglia (l’ereditarietà è un fattore importante nell’ eziopatogenesi della malattia glaucomatosa). Di seguito vengono elencati i principali esami eseguiti nella diagnosi e nel follow-up dei pazienti con glaucoma o con sospetto glaucoma.

 

Visita oculistica

Consente di valutare le diverse strutture oculari coinvolte nella patogenesi e nella progressione della malattia. Mediante la visita oculistica è possibile valutare, tra le altre cose, l’ampiezza della camera anteriore (importante nella patogenesi del glaucoma da chiusura d’angolo), la presenza di cause di glaucoma secondario (sindrome pseudoesfoliativa, sindrome da dispersione di pigmento, neovascolarizzazione, ecc.), nonché l’aspetto della testa del nervo ottico e l’eventuale presenza di un danno da glaucoma più o meno avanzato. La visita oculistica deve comprendere la valutazione del fondo dell’occhio, preferibilmente in midriasi (mediante dilatazione della pupilla). In base alla gravità della malattia, alla rapidità di progressione della stessa, al tempo trascorso dalla diagnosi e a numerosi altri fattori, l’oculista deciderà quando eseguire la visita e/o gli esami di follow-up, generalmente in un tempo compreso tra i 3 e i 12 mesi. È importante ricordare come il glaucoma sia una malattia cronica, da cui non si può guarire; è necessario dunque effettuare delle visite e degli esami per tutta la vita, in modo tale da accorgersi per tempo di eventuali peggioramenti della malattia e prendere le giuste contromisure terapeutiche.

 

Misurazione della pressione oculare

Detta anche tonometria, rappresenta uno degli esami fondamentali che vengono eseguiti durante lavisita oculistica, nonché un cardine della valutazione clinica del paziente glaucomatoso e dell’efficacia della terapia ipotonizzante. Attualmente, esistono diversi strumenti per misurare la  pressione intraoculare; tra questi, quello considerato lo standard di riferimento è il tonometro ad applanazione di Goldmann. La misurazione della pressione oculare tramite questo strumento non è dolorosa né invasiva e prevede che lo strumento sfiori la superficie dell’occhio del paziente dopo l’applicazione di un collirio anestetico e di un colorante (fluoresceina). Tra gli altri strumenti a disposizione per la misurazione della pressione intraoculare abbiamo il tonometro a soffio e quello a rimbalzo, non sono invasivi e possono essere utilizzati senza l’instillazione del collirio anestetico e del colorante. La misurazione della pressione oculare può essere eseguita, a discrezione dell’oculista, una singola volta nell’arco della giornata o più volte al giorno (curva tonometrica).

Esame del campo visivo

Esame strumentale che non può mancare nell’inquadramento diagnostico e nel monitoraggio dei pazienti con glaucoma o con sospetto glaucoma. Il campo visivo è la porzione di spazio che può essere percepita da un occhio ed il danno causato dal glaucoma consiste nella riduzione progressiva dell’estensione del campo visivo stesso. Gli strumenti a nostra disposizione (detti perimetri) riescono a rilevare danni al campo visivo molto precocemente, prima che il paziente stesso sviluppi dei sintomi. L’esame non è invasivo e consiste nel proiettare degli stimoli luminosi sullo sfondo chiaro del perimetro, la percezione di tali stimoli da parte del paziente dovrà essere confermata premendo un  pulsante. Eseguire un campo visivo in modo tale che sia attendibile richiede un certo grado di collaborazione e concentrazione da parte del paziente, possono quindi essere necessari diversi esami prima che il paziente acquisisca l’esperienza necessaria ad eseguirlo in maniera corretta. Così come la visita oculistica, anche il campo visivo deve essere ripetuto a intervalli regolari, a discrezione dell’oculista.

OCT

Acronimo di tomografia a coerenza ottica, l’OCT è un esame strumentale non invasivo, che consente di ottenere immagini tomografiche ad alta risoluzione delle strutture coinvolte nel danno glaucomatoso. L’OCT costituisce un importante ausilio per l’oculista nella valutazione della morfologia di tali strutture ed è complementare alla visita oculistica con esame del fondo dell’occhio. Gli strumenti attualmente a disposizione riescono a fornire delle immagini a risoluzione e dettaglio molto elevatiL’OCT ha ormai affiancato la visita oculistica e il campo visivo nella diagnosi e nel follow up dei pazienti con glaucoma conclamato o sospetto e la periodicità con cui ripetere l’esame è stabilita dall’oculista.

Pachimetria

È la misurazione dello spessore della cornea (la porzione più anteriore dell’occhio) con  strumenti che richiedono o meno il contatto con la superficie dell’occhio. Viene generalmente eseguita una sola volta e dovrebbe far parte degli esami di inquadramento di tutti i pazienti glaucomatosi o con sospetto glaucoma. Avere una cornea sottile rappresenta un fattore di rischio non indipendente per lo sviluppo o la progressione del glaucoma, ma la pachimetria è strettamente correlata anche alla misurazione della pressione oculare: valori pachimetrici che deviano significativamente dai valori medi riscontrati nella popolazione generale possono infatti indurre delle sovrastime o delle sottostime della pressione intraoculare; in particolare, cornee spesse forniranno pressioni più alte del valore reale, cornee sottili forniranno pressioni più basse del valore reale.

Gonioscopia

Rappresenta l’esame diretto dell’angolo irido-corneale, ossia la regione della porzione anteriore dell’occhio (detta camera anteriore) dove l’iride e la cornea si incontrano. Questa regione anatomica è di fondamentale importanza per la fisiologia oculare in quanto è qui che risiedono le strutture deputate al drenaggio dell’umor acqueo, ossia il liquido che circola all’interno dell’occhio e la cui pressione idrostatica determina la pressione intraoculare . Nei glaucomi da chiusura d’angolo, questa regione anatomica risulta essere ridotta in ampiezza, tale da ostacolare il deflusso dell’umor acqueo e il mantenimento della pressione intraoculare fisiologica. L’esame necessita dell’applicazione di una lente apposita sulla superficie dell’occhio, previa instillazione di collirio anestetico, e di osservazione dell’angolo irido-corneale alla lampada a fessura. La gonioscopia dovrebbe essere eseguita almeno una volta in tutti i pazienti con diagnosi di glaucoma o con glaucoma sospetto, in particolare nei pazienti a rischio di glaucoma da chiusura d’angolo.

campo visivo

Terapia 

Secondo le attuali linee guida, l’obiettivo della terapia del glaucoma non è semplicemente la riduzione della pressione oculare: il traguardo che ci si pone è quello di migliorare la qualità di vita del paziente glaucomatoso, o a rischio di glaucoma, a un costo sostenibile per la società.Per questo la decisione su quale terapia utilizzare e su quando iniziarla va personalizzata per ogni paziente. Questo perché non solo la malattia, ma anche la terapia stessa ha un impatto sulla qualità di vita del paziente, nonché dei costi per la società.Attualmente, il medico oculista non ha modo di guarire il danno glaucomatoso quando questo si è già reso manifesto. Può soltanto rallentare la progressione, e questo attualmente si può ottenere solo riducendo la pressione oculare fino a quel valore ideale, caratteristico per ogni paziente (IOP target), raggiunto il quale la riduzione delle cellule ganglionari retiniche diventa simile a quella che si ha fisiologicamente con l’avanzare dell’età. Le armi a disposizione per ridurre la progressione del danno da glaucoma sono la terapia medica, quella laser e quella chirurgica.

La terapia medica prevede l’instillazione quotidiana di farmaci in collirio. Le classi di farmaci utilizzate nella terapia del glaucoma sono gli analoghi delle prostaglandine, i beta bloccanti, gli inibitori dell’anidrasi carbonica, gli alpha agonisti e i parasimpaticomimetici. In alcuni paesi è disponibile anche la categoria più recente, gli inibitori delle rho chinasi. In casi selezionati, e generalmente nel breve termine, possono essere utilizzati anche farmaci con modalità di somministrazione diversa da quella in collirio, come il mannitolo, diuretico osmotico somministrato per via endovenosa, o l’acetazolamide in compresse. Ogni classe di farmaci ha uno specifico profilo per quanto concerne gli effetti collaterali e l’efficacia ipotonizzante: si va da una riduzione della pressione oculare da un minimo del 20% a un massimo del 35-40% per singolo principio attivo e possono essere utilizzate, da sole o in combinazione, fino al raggiungimento della IOP target. Affinché la terapia medica sia efficace è fondamentale che il medico oculista responsabilizzi il paziente e gliene spieghi l’importanza, nonché gli effetti collaterali che potrebbe aspettarsi; è altrettanto importante che il paziente sia in grado di autosomministrarsi il collirio, o farselo somministrare da terzi, con precisione e costanza. Tuttavia, se la terapia medica non è ben tollerata o non si dimostra sufficiente ad impedire la progressione della malattia, si pone indicazione alla chirurgia.

La terapia laser prevede la trabeculoplastica laser selettiva (SLT) e la trabeculoplastica argon laser (ALT). Entrambe non necessitano di ospedalizzazione, possono essere eseguite in ambulatorio e permettono una riduzione della pressione oculare media fino al 25%. Possono essere utilizzate come unica terapia, o in associazione a terapia medica o chirurgica. Non sono indicate nelle forme di glaucoma ad angolo chiuso, infiammatorie o neovascolari. Anche l’attacco acuto di glaucoma si giova della terapia laser: se presente un blocco pupillare, questo può essere risolto da un’iridotomia YAG laser, che permette di ristabilire la normale idrodinamica tra la camera posteriore e anteriore dell’occhio.La tecnica chirurgica tradizionale del glaucoma, nonché quella tuttora riconosciuta come gold standard, è la trabeculectomia. L’intervento prevede di creare una fistola tra la camera anteriore dell’occhio e lo spazio sotto la congiuntiva per permettere una via alternativa di deflusso dell’umore acqueo tramite una bozza filtrante. Altra possibilità è l’impianto di una valvola o di un tubo drenante, che solitamente vengono riservati ai casi più complessi, dove la chirurgia tradizionale ha fallito o rischia di fallire per la cicatrizzazione della bozza filtrante.

Altre tecniche possibili sono la sclerectomia profonda, la viscocanalostomia e la canaloplastica. Queste, se da una parte sono meno invasive rispetto alla trabeculectomia, dall’altra sembrerebbero avere una minore efficacia ipotonizzante e sono pertanto meno praticate.

Un’altra possibilità sono le cosiddette MIGS, acronimo per minimally invasive glaucoma surgeries. Queste prevedono l’utilizzo di diversi dispositivi che possono incentivare il deflusso dell’umor acqueo tramite vie diverse, bypassando il trabecolato per permettere all’acqueo di raggiungere il canale di Schlemm, dilatando il canale stesso, oppure oltrepassandolo direttamente per creare uno spazio di deflusso sottocongiuntivale. Queste tecniche prevedono una minore manipolazione chirurgica, un più rapido recupero postoperatorio e un tasso di complicanze piuttosto ridotto. Per contro, sembrano avere un’efficacia ipotonizzante minore rispetto all’intervento classico di trabeculectomia. Vengono di solito riservati a pazienti sui quali non è necessaria una drastica riduzione della pressione oculare. È importante comunque ricordare che la scelta del trattamento va attentamente calibrata per ogni paziente in base al quadro clinico e spetta sempre al  chirurgo.

Da ricordare, infine, che anche la chirurgia della cataratta può contribuire enormemente alla riduzione della pressione oculare nelle chiusure angolari indotte dal cristallino.

La pressione intraoculare (Faq)

Da cosa è determinata la pressione degli occhi?
La pressione intraoculare (IOP) è determinata dalla quantità di un liquido prodotto all’interno dell’occhio chiamato “umor acqueo”. Ovviamente più liquido c’è nel bulbo oculare più è alto il valore della pressione stessa.

Con quale unità si misura?
Il valore della pressione interna dell’occhio, sebbene sia differente dalla pressione arteriosa, si misura con la stessa unità, ossia in “millimetri di mercurio” (mmHg). Mentre l’oculistica tradizionale considerava i due valori del tutto distinti (indipendenti), recenti studi hanno messo in evidenza l’esistenza di una correlazione (per quanto essa possa essere debole): secondo alcuni ricercatori con una pressione arteriosa elevata ci sarebbero maggiori probabilità di soffrire di pressione intraoculare elevata. [5]

Qual è il valore massimo tollerabile dall’organismo?
pressione occhio

La pressione intraoculare deve essere normalmente compresa tra i 10 e i 20 millimetri di mercurio (mmHg). Il glaucoma è generalmente associato a valori superiori a 20-21 mmHg, ma esiste anche una forma di glaucoma a bassa pressione in cui vengono prodotti danni al nervo ottico (pur con valori pressori compresi nei limiti normali) che sembra dipendere da uno scarso afflusso di sangue al nervo ottico, il quale a sua volta provoca la progressiva atrofizzazione delle fibre nervose. Inoltre bisogna tenere conto anche dello spessore della cornea e dell’eventuale presenza di una miopia elevata.

Come si misura la pressione intraoculare?
Esistono diversi metodi: col passare degli anni la tecnica si è evoluta fino a raggiungere misurazioni più precise. Attualmente lo strumento più diffuso negli ospedali è il “tonometro ad applanazione” di Goldmann (con cui si esercita una pressione sulla cornea e si misura la resistenza del bulbo), mentre per gli screening di massa la tecnologia più diffusa è il “tonometro a soffio” (con cui non c’è contatto diretto perché si sfrutta un getto d’aria che deforma leggermente il bulbo oculare). (Vedi tonometria).

Quali possono essere altri esami utili?
Può essere utile misurare lo spessore corneale (attraverso un apposito esame strumentale che si chiama pachimetria), in modo da capire quale sia il valore “reale” della propria pressione oculare. In particolare, si è visto, che nelle persone che presentano una pachimetria più bassa (ossia una cornea sottile) si deve aumentare di alcuni punti la pressione oculare rilevata, così da ottenere una misurazione tonometrica corretta (reale); viceversa, negli individui con pachimetria più alta (cornea spessa), si devono sottrarre alcuni punti.

Quando bisogna effettuare la pachimetria?
È sufficiente eseguire la pachimetria corneale una sola volta, dal momento che lo spessore corneale non si modifica in maniera significativa nel tempo, a differenza di altri esami quali il campo visivo e altre valutazioni di eventuali danni provocati dal glaucoma.

Come si tratta il glaucoma?
terapie glaucoma

Si cura di solito con colliri per abbassare la pressione oculare (detti “ipotonizzanti”). Per risultare efficace la terapia deve essere seguita regolarmente e con costanza. Talvolta, il trattamento può dar luogo ad effetti non desiderati: alcuni tipi di gocce possono causare bruciore, arrossamento dell’occhio e mal di testa, che di solito scompaiono dopo poche settimane. Talora si possono avere anche alterazioni di scarsa importanza del ritmo cardiaco. Chi accusa eventuali fastidi o disturbi dovrà sempre informare il medico oculista presso cui è in cura.

I glaucomatosi necessitano di controlli periodici. Questa malattia, infatti, può peggiorare senza che dia sintomi e, in tal caso, può essere necessario modificare il tipo di terapia. Una volta avvenuto il danno non è più reversibile: si ricorre a farmaci ed eventualmente alla chirurgia (trabeculectomia) per cercare di preservare almeno la funzionalità visiva esistente.

Il trattamento del glaucoma è di solito efficace solo se viene seguita scrupolosamente la terapia prescritta dal medico oculista. Talvolta vengono prescritti integratori alimentari che potrebbero contribuire alla protezione del nervo ottico.
La terapia per il glaucoma non deve mai essere sospesa senza consultare prima l’oculista, ma anche il medico di famiglia deve essere sempre al corrente della terapia praticata. Se tale terapia non fosse efficace nel controllare la pressione intraoculare, potrebbe rendersi necessario il ricorso alla chirurgia o al laser. Le complicanze di tali interventi sono rare. Nella maggioranza dei casi si riesce, con questi metodi, ad impedire l’evoluzione della malattia che altrimenti – se la pressione oculare non si riduce – può portare a ipovisione e cecità.

Quand’è più probabile che una persona sia affetta da glaucoma?
Quando ha più di quarant’anni e ci sono altri casi in famiglia (per questo si parla di “familiarità” per il glaucoma). Più si è anziani e più aumenta il rischio di essere colpiti da questa patologia oculare detta anche “silente” perché non dà sintomi particolari nelle fasi iniziali. Soprattutto chi ha altri familiari con glaucoma dovrebbe sottoporsi indicativamente a un controllo oculistico una volta l’anno in assenza di altre patologie (con misurazione della pressione oculare). La maggiore incidenza di glaucoma sarebbe favorita anche in presenza di una miopia o di un’ipermetropia elevate, del diabete e di eventuali terapie protratte a base di cortisonici.

 

[1I dati sono stati pubblicati nel 2010. Più recentemente, nel 2017, il Vision Loss Expert Group ha citato la cifra di 60 milioni (AAVV, “Global causes of blindness and distance vision impairment 1990–2020: a systematic review and meta-analysis”, Lancet Glob Health. 2017 Dec;5(12):e1221-e1234. doi: 10.1016/S2214-109X(17)30393-5. Epub 2017 Oct

[2Fonte: IAPB Internaz.

[3Fonte: Tham YC, Li X, Wong TY, Quigley HA, Aung T, Cheng CY, “Global prevalence of glaucoma and projections of glaucoma burden through 2040: a systematic review and meta-analysis“, Ophthalmology. 2014 Nov;121(11):2081-90. doi: 10.1016/j.ophtha.2014.05.013. Epub 2014 Jun 26. Review.

[4“Diffuse anomalie strutturali e funzionali nel cervello di un glaucomatoso possono essere, almeno parzialmente, indipendenti da una IOP più elevata (=pressione intraoculare, ndr) e dalla conseguente degenerazione retinica”, cit. tratta dall’articolo di Giorgio A, Zhang J, Costantino F, De Stefano N, Frezzotti P, “Diffuse brain damage in normal tension glaucoma“, Human Brain Mapping, 2017 Oct 24. doi: 10.1002/hbm.23862 (Epub ahead of print)

[5Horwitz A, Klemp M, Jeppesen J, Tsai JC, Torp-Pedersen C, Kolko M, “Antihypertensive Medication Postpones the Onset of Glaucoma: Evidence From a Nationwide Study“,
Hypertension. 2017 Feb;69(2):202-210. doi: 10.1161/HYPERTENSIONAHA.116.08068. Epub 2016 Dec 5


Scheda informativa a cura dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità-IAPB Italia onlus

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Pagina pubblicata il 25 gennaio 2013. Ultimo aggiornamento: 10 marzo 2023.

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Abrasione corneale

I tuoi occhi

Difetti e disturbi

Abrasione corneale

Cos’è l’abrasione corneale?

Consiste in una lesione della  parte esterna della cornea con  perdita parziale di tessuto superficiale (epitelio).
cornea

Quali sono le cause?

Le abrasioni più comuni sono quelle traumatiche causate da diversi fattori: corpi estranei, unghiate, ditate,  rottura di lenti a contatto, foglie d’albero o di piante , esposizione senza protezione ai raggi ultravioletti (UV), ecc. Possono essere coinvolti gli strati più superficiali della cornea o, nei casi più complicati, possono essere interessati  gli strati profondi. Di solito è necessario eseguire una visita in urgenza, rivolgendosi al proprio oculista o recandosi presso il pronto soccorso oculistico più vicino.

Quali sono i sintomi provocati dal trauma?

In presenza di un’abrasione corneale i sintomi più comuni sono: sensazione di corpo estraneo, dolore, fotofobia, arrossamento oculare e lacrimazione abbondante. Se però è colpita la zona centrale della cornea ci sarà anche un’alterazione più o meno importante  del visus perché viene coinvolta la zona ottica  che si trova in corrispondenza della pupilla (il visus può presentarsi sfocato/appannato, come se si stesse guardando attraverso un vetro sporco).

Come si esegue la diagnosi?

Lo specialista, oltre ad osservare la superficie anteriore dell’occhio alla lampada a fessura, aiutandosi con un colorante specifico (fluoresceina) – con cui si evidenziano anche le più piccole abrasioni corneali –, aprirà e rovescerà la palpebra superiore (eversione palpebrale) per escludere la presenza di eventuali corpi estranei. Se la lesione coinvolge gli strati più profondi della cornea e si sospetta che il corpo estraneo sia penetrato all’interno del bulbo oculare, bisognerà eseguire  una radiografia per individuarlo .

Si può prevenire?

Sì, in particolare con l’uso di occhiali protettivi sui luoghi di lavoro a rischio e durante le attività sportive che implicano un contatto diretto.

Per i portatori di lenti a contatto è importante evitare di strofinarsi gli occhi con le dita o di applicarle e rimuoverle in maniera incauta (leggi l’uso corretto delle lenti a contatto).

Si può curare?

Sì: se non è profonda la lesione della cornea si può rimarginare nell’arco di 48-72 ore. La terapia varia a seconda dell’entità della lesione. Generalmente l’abrasione corneale viene curata con  l’applicazione di una pomata antibiotica,  e bendaggio dell’occhio per almeno 2-3 giorni consecutivi; bisogna, infatti, dare il tempo al tessuto corneale di riformarsi. Nei casi di forte dolore è consigliabile l’uso di antinfiammatori non steroidei per bocca.

Per le abrasioni indotte da agenti penetranti bisogna eseguire interventi chirurgici specifici per ottenere una perfetta chiusura della ferita e ristabilire così l’integrità delle strutture anatomiche lese. Invece per le abrasioni causate da sostanze chimiche è importante lavare rapidamente l’occhio, rimuovendo così l’agente ustionante e poi provvedere immediatamente a farsi visitare.

Cosa è necessario fare se è entrata una scheggia nell’occhio?

Generalmente lo specialista la rimuove a livello ambulatoriale, dopo aver anestetizzato l’occhio instillando un collirio, tranne alcuni casi in cui è necessario un intervento chirurgico (se il corpo estraneo è penetrato in profondità). In quest’ultimo caso si possono determinare alterazioni delle strutture anatomiche oculari. Infatti, la velocità e la forma del corpo estraneo penetrato nel bulbo  può causare un danneggiamento del cristallino – con conseguente cataratta traumatica – e danni alla retina, con rotture o distacco traumatico.

Fondamentale è la rimozione della scheggia: la persistenza di eventuali residui (come ad esempio della ruggine nel caso di corpi estranei di ferro) può creare ulteriori danni e la non completa guarigione della lesione. È necessario poi intraprendere una terapia con pomata antibiotica   e usare un collirio per dilatare la pupilla, oltre a un bendaggio volto a immobilizzare la palpebra dell’occhio interessato.

Se il danno è dovuto a una rottura delle lenti a contatto che bisogna fare?

Dopo l’intervento dell’oculista, che provvederà all’asportazione del frammento della lente a contatto, si attuerà una terapia antibiotica locale. Bisognerà attendere poi la completa riepitelizzazione corneale (ricostituzione degli strati della superficie oculare) per poter indossare nuovamente le lenti a contatto. È opportuno astenersi però da un loro impiego per almeno due settimane dopo la cicatrizzazione della lesione.

Se si ha il sospetto di avere un frammento di lente a contatto trattenuto nell’occhio (nella maggior parte dei casi si posiziona sotto la palpebra superiore), ma non si riesce a vederlo e a rimuoverlo, non è consigliabile eseguire manovre traumatiche e/o vigorose, strofinando gli occhi, provando a rigirare la palpebra ecc, perché si rischia di complicare la situazione, causando infiammazione dell’occhio e magari provocando involontariamente delle lesioni sulla cornea. In questi casi è sempre bene rivolgersi all’oculista.

Cosa fare se l’abrasione è causata dai raggi ultravioletti (UV)?

L’abrasione avviene solo in casi gravi, come per un mancato uso della maschera protettiva (dotata di filtri speciali) durante lavori di saldatura o degli occhiali protettivi durante l’esposizione a lampade abbronzanti. La terapia da attuare è di solito a base di pomata antibiotica locale, seguita da bendaggio per almeno 2-3 giorni. In caso di lesione bilaterale (entrambi gli occhi coinvolti) si benderà l’occhio più gravemente colpito. In caso di dolore si consiglia l’assunzione di farmaci antinfiammatori non steroidei per bocca, sempre dopo aver consultato un medico.

Leggi anche: Cecità corneale

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Pagina pubblicata il 1 settembre 2010. Ultimo aggiornamento: 06 marzo 2023. 

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Xeroftalmia

I tuoi occhi

Malattie oculari

condizioni generali di consultazione

Xeroftalmia

Cos’è?

Il significato del termine xeroftalmia è occhio secco, dal greco xero “secco” e ophtalmós “occhio”.  Si tratta, infatti, di una grave patologia dell’occhio, caratterizzata dalla presenza di   secchezza oculare, causata dalla carenza di vitamina A. Può degenerare in ulcerazione della cornea (cheratomalacia).

 

Diffusione

La xeroftalmia risulta essere la maggiore causa di cecità infantile nei Paesi in via di sviluppo. Si calcola che:

  • 250 milioni di bambini in età prescolare soffrono di carenza di vitamina A;
  • ogni anno 350.000 bambini diventano ciechi (complessivamente, secondo l’OMS, sono 1,4 milioni i piccoli non vedenti per diverse cause);
  • annualmente muoiono 2 milioni di bambini per la carenza di vitamina A (ipovitaminosi). 

Aspetti Clinici 

La xeroftalmia si sviluppa a seguito della perdita di cellule della congiuntiva (caliciformi e mucosecernenti) e a un’alterazione delle cellule epiteliali congiuntivali (metaplasia squamosa). Tali alterazioni causano la cheratinizzazione dell’epitelio congiuntivale, che conferisce a questo tessuto un aspetto secco: è la “xerosi congiuntivale”. Quest’ultima si manifesta a livello della congiuntiva bulbare: le caratteristiche tipiche includono la mancanza di umidità della mucosa, un suo ispessimento, un raggrinzimento e una perdita  della trasparenza. A tale quadro clinico può associarsi la presenza di piccole placche grigiastre di aspetto schiumoso (più frequentemente localizzate a livello del limbus corneale, temporalmente e bilateralmente), dette macchie di Bitot. L’instabilità del film lacrimale causa un aspetto ruvido e opaco della cornea (xerosi corneale). La secchezza corneale e congiuntivale possono portare a difetti dell’epitelio corneale fino ad arrivare all’ulcerazione della stessa, con  conseguente perdita della vista nel 50% dei pazienti non trattati. 

Sintomi 

I pazienti affetti da xeroftalmia presentano svariati sintomi, quelli più comuni sono:

  • emeralopia (cecità notturna);
  • bruciore oculare;
  • iperemia congiuntivale;
  • sensazione di sabbia nell’occhio;
  • fastidio alla luce (fotofobia);
  • secchezza oculare.

Diagnosi

L’apporto di vitamina A dovrebbe essere adeguato. Il livello plasmatico di vitamina A è l’elemento principale per la diagnosi [1]. La citologia ad impressione congiuntivale è una tecnica utile per identificare la xeroftalmia. I metodi di raccolta, fissazione e colorazione del campione sono adatti ad essere usati nei paesi in via di sviluppo, a differenza dell’altra metodica (misurazione dei livelli sierici della vitamina). Può essere utile anche eseguire il test di Schirmer, per una valutazione della quantità di lacrime prodotte.
Invece le macchie di Bitot  non possono essere un’adeguata spia di uno stato d’ipovitaminosi A: possono essere infatti legate ad uno stato di malnutrizione generalizzata.In alcuni casi la xeroftalmia può essere associata a xerostomia (bocca secca), in tali pazienti è consigliabile far eseguire delle indagini specifiche che escludano la presenza di una patologia autoimmune (come ad esempio la sindrome di Sjögren). Entrambi le problematiche (xeroftalmia e xerostomia) possono essere presenti anche nel lupus eritematoso sistemico, l’artrite reumatoide e la fibromialgia.

Trattamento

L’integrazione di vitamina A dà di solito buoni risultati nella regressione della cecità notturna, della xerosi congiuntivale e delle macchie di Bitot, ma è meno efficace nel trattamento delle complicanze corneali. La profilassi è sempre preferibile alla terapia: può essere somministrata oralmente o mediante iniezione intramuscolare.Oltre all’assunzione di vitamina A, è importante mantenere la superficie oculare sempre ben idratata, attraverso l’instillazione ripetuta più volte al giorno di colliri lubrificanti, da associare eventualmente ad una somministrazione in gel (sempre con prodotti lubrificanti) la sera prima di andare a dormire. Per alleviare i disturbi causati dalla secchezza oculare è, inoltre, preferibile non esporsi al vento e a fonti di calore eccessivo ed evitare di soggiornare in ambienti con aria troppo secca.
Con pochissime risorse si potrebbe ridurre la mortalità dei bambini del 34% nelle aree con questa deficienza vitaminica. Il programma Vision 2020 [2] puntava ad identificare le aree a maggior rischio e ad incoraggiare misure preventive attraverso immunizzazioni, educazione a una corretta alimentazione e all’assunzione di complementi di Vitamina A. 

[1“gli indicatori clinici e funzionali correlati con la salute oculare e i biomarcatori biochimici della vitamina A (ovvero il retinolo serico, l’RBP, il retinolo derivante dall’allattamento al seno, i test di dosaggio, il metodo della diluizione isotopica e gli esteri serici del retinolo). Tali biomarcatori sono quindi correlati con le concentrazioni di vitamina A nel fegato, che di solito sono considerati il gold standard per valutare i livelli di vitamina A”, (cit. da Tanumihardjo SA, Russell RM, Stephensen CB, Gannon BM, Craft NE, Haskell MJ, Lietz G, Schulze K, Raiten DJ, “Biomarkers of Nutrition for Development (BOND)-Vitamin A Review”, J Nutr. 2016 Sep;146(9):1816S-48S. doi: 10.3945/jn.115.229708. Epub 2016 Aug 10)


Scheda informativa a cura dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità-IAPB Italia onlus

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Pagina pubblicata il 27 aprile 2007. Ultimo aggiornamento: 27 gennaio 2023. 

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Degenerazione maculare legata all’età (AMD o DMLE)

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Degenerazione maculare legata all’età (AMD o DMLE)

Cos’è?

AMDCon l’espressione “degenerazione maculare” si indica una malattia che colpisce la zona centrale della retina (la macula), provocando tutta una serie di alterazioni anatomiche e funzionali, in grado di portare ad una perdita della visione centrale. La patologia viene spesso indicata come degenerazione maculare legata all’età (AMD o DMLE), perché si manifesta principalmente in soggetti con età superiore ai 60 anni.

Cosa provoca?

È causa di un’importante e irreversibile riduzione della funzionalità visiva a livello del campo visivo centrale. Il fenomeno correlato più comune è il processo d’invecchiamento dell’occhio: la macula, contenente numerosi fotorecettori (vi sono concentrati i coni), si altera sino a perdere le sue caratteristiche. Ciò è dovuto alla morte delle cellule retiniche, che può essere lenta e progressiva oppure più rapida e drammatica.

Quant’è diffusa?

La degenerazione maculare legata all’età (AMD o DMLE) è attualmente considerata la prima causa di cecità centrale nei Paesi di maggior benessere e la terza in assoluto. Indicativamente il 5% della cecità mondiale è attribuibile all’AMD, una percentuale che sale però al 41% nei Paesi benestanti. Inoltre è un’importante causa d’ipovisione.

degenerazione maculare Si prevede che, nel 2020, circa 196 milioni di persone saranno colpite da degenerazione maculare legata all’età, una cifra che probabilmente è destinata a crescere con l’invecchiamento demografico mondiale (soprattutto nei Paesi di maggior benessere).

L’incidenza dell’AMD è rara prima dei 55 anni, ma aumenta soprattutto dopo i 75 anni. La forma più grave della malattia, detta “umida”, è meno frequente e a più rapida evoluzione ma attualmente è l’unica considerata trattabile.

Quali sono i suoi sintomi?

I sintomi iniziali della degenerazione maculare può essere una distorsione delle immagini nella parte centrale del  campo visivo (dove si punta lo sguardo). Altri sintomi piuttosto comuni sono: diminuzione dell’acuità visiva, difficoltà nella lettura e nello svolgimento di attività a distanza ravvicinata (in cui è richiesta la visione dei piccoli dettagli), necessità di utilizzare una fonte di luce sempre più intensa per vedere da vicino, perdita della brillantezza dei colori, difficoltà a riconoscere i volti delle persone, difficoltà nell’adattamento al buio. La degenerazione maculare comporta dunque una severa penalizzazione visiva, ma è bene sottolineare che essa (anche nei casi più gravi), non provoca la cecità totale, in quanto la visione paracentrale e quella laterale vengono solitamente conservate. Comunque si tratta di una patologia fortemente invalidante, che può avere anche gravi ripercussioni sul piano psicologico.

CAUSE

L’eziologia dell’AMD non è stata tuttora dimostrata, ma sono stati evidenziati numerosi fattori di rischio associati alla sua comparsa, quali:

  • età superiore ai 55 anni;
  • sesso (le donne sono maggiormente predisposte a sviluppare la malattia);
  • fumo di sigaretta;
  • abuso di alcol;
  • diabete mellito;
  • vita sedentaria;
  • dieta povera di vitamine e acidi grassi (in particolare omega-3);
  • ipertensione arteriosa;
  • disturbi della coagulazione;
  • esposizione prolungata e ripetuta a sorgenti di luce molto intense.

Inoltre è ormai acclarata la familiarità come principale fattore di rischio nello sviluppo della malattia da parte di soggetti con parenti di primo grado che ne sono affetti (l’origine è infatti genetica). [1]

Numerosi sono i fattori genetici che sono stati associati a un incremento del rischio di sviluppare la maculopatia. Tra questi vi sono soprattutto i geni CFH e ARMS2: in particolare la variante del gene CFH (chiamata rs1061170) è stata associata a un aumento di almeno cinque volte del rischio di ammalarsi di AMD.

Tra l’altro è possibile effettuare un test genetico mediante tampone orale per conoscere il rischio di ammalarsi di AMD, ma la sua affidabilità non è ancora molto alta [2]. Uno studio pubblicato a novembre del 2012 individua, inoltre, un meccanismo genetico che, provocando l’aumento dell’espressione di una proteina nella retina (IL17RC), promuoverebbe l’infiammazione della macula e l’attacco, da parte di cellule del proprio sistema immunitario, delle sue stesse cellule (che di conseguenza muoiono).

CLASSIFICAZIONE

Esistono due forme di degenerazione maculare legata all’età (detta anche degenerazione maculare senile), entrambe associate ad alterazioni del microcircolomacula capillare, tipiche dell’età avanzata: la forma secca (o atrofica) e quella umida (o essudativa); queste andrebbero considerate come due patologie distinte, poiché le loro prognosi ed eventuali terapie sono del tutto diverse.

La forma secca o atrofica (85-90% dei casi) è caratterizzata da un assottigliamento progressivo della retina centrale, che risulta scarsamente nutrita dai capillari (poco efficienti) e, di conseguenza, si atrofizza (muoiono le cellule nervose fotosensibili), determinando la formazione di una cicatrice in sede maculare con un aspetto detto a “carta geografica” (areolare).

L’altra forma di degenerazione maculare, quella più grave e a più rapida evoluzione, è detta umida o essudativa (10-15% dei casi): è complicata dalla formazione di nuovi capillari con una parete molto fragile. Questi vasi sono permeabili al plasma (la parte liquida del sangue) e possono dare origine, quindi, a distacchi sierosi dell’epitelio pigmentato retinico e, nei casi più avanzati, si possono rompere facilmente, provocando un’emorragia retinica. I ripetuti episodi emorragici e di riparazione tissutale sono responsabili della formazione di una cicatrice centrale più o meno esuberante.

Entrambe le forme di degenerazione maculare si accompagnano, a livello maculare, alle drusen, ossia a corpi colloidi: si tratta di depositi di “scarto” di forma irregolarmente rotondeggiante, situati sotto la retina (depositi subepiteliali piccoli e polimorfi). Se ne possono distinguere essenzialmente due tipi: hard drusen (meno gravi) e soft drusen (potenzialmente più nocive per la vista). degenerazione maculare legata all'età

La cosiddetta fase delle drusen è generalmente priva di sintomi e solitamente non dà origine a riduzione dell’acutezza visiva. A volte si può presentare tuttavia una distorsione centrale delle immagini, principalmente delle linee rette (metamorfopsie).

Secondo uno studio pubblicato su Jama Ophthalmology il 2 aprile 2015, l’età senile e la mutazione di due alleli (CFH e ARMS2) sono i due principali fattori di rischio associati allo sviluppo di accumuli proteici:

La copresenza di drusen medie e di anomalie nell’epitelio pigmentato retinico è segno di un rischio maggiore di progressione dell’AMD avanzata rispetto alla sola presenza delle drusen di medie dimensioni.

DIAGNOSI

La diagnosi di degenerazione maculare può essere fatta dall’oculista a seguito di una visita completa. In particolare lo specialista dovrà: raccogliere l’anamnesi del paziente (in modo da rilevare la presenza di eventuale familiarità per la malattia e risalire all’epoca d’insorgenza dei primi disturbi visivi); misurare l’acuità visiva (sia da lontano che da vicino); eseguire l’esame del fondo oculare, che consiste nell’osservare la retina centrale (macula) e quella periferica, tramite l’utilizzo di uno strumento detto oftalmoscopio e apposite lenti (dopo aver dilatato le pupille). Oftalmoscopicamente le drusen appaiono come piccoli depositi di colore giallastro.

Un esame molto facile da eseguire ed utilissimo per monitorare nel tempo l’evoluzione della patologia è il reticolo di Amsler (una griglia a quadretti con un punto centrale), che consente di riconoscere distorsioni o zone cieche centrali. Uno dei sintomi della malattia è, infatti, una distorsione delle linee rette (righe di un quaderno, linee formate dalle mattonelle del pavimento) in prossimità del centro del campo visivo. In presenza di tali alterazioni visive, è importante sottoporsi al più presto ad un controllo medico oculistico per una diagnosi precisa.

In alcuni casi, per meglio inquadrare la situazione clinica, l’oculista può richiedere anche degli esami diagnostici strumentali, quali: l’OCT (tomografia a coerenza ottica),, l’angio-OCT, l’angiografia con fluoresceina (FAG) e l’angiografia al verde di indocianina (ICG). L’OCT permette di studiare le alterazioni ultrastrutturali retiniche nelle fasi precoci della malattia, visualizzando e misurando lo spessore della retina e dei singoli strati retinici; l’angio-OCT ,consente di studiare i vasi retinici  senza utilizzare il mezzo di contrasto; l’angiografia con fluoresceina e quella al verde di indocianina,  consentono di ottenere immagini molto dettagliate della circolazione sanguigna, sia della retina che della coroide, dopo aver iniettato in vena un mezzo di contrasto.

Tali indagini sono utili allo specialista per fare la diagnosi e studiare l’evoluzione della malattia nel tempo, oltre a essere una guida preziosa per un eventuale trattamento.

Trattamenti 

A seconda che si tratti della forma secca oppure di quella umida l’approccio è differente. Le forme secche sono considerate ancora oggi incurabili; tuttavia potrebbe essere possibile, una volta diagnosticata, rallentarne almeno in parte l’evoluzione (ad esempio mediante un corretto stile di vita che va da esercizi fisici regolari a una dieta variata), anche se la questione resta scientificamente controversa. Inoltre esistono alcuni casi in cui le forme secche evolvono in quelle umide.

Alcuni ricorrono a integratori alimentari a base di sostanze antiossidanti, che potrebbero aiutare a combattere la formazione dei radicali liberi e l’ischemia del tessuto retinico maculare (ossia la sua morte dovuta alla riduzione o all’arresto dell’apporto di sangue alla retina). Quelli più comunemente utilizzati sono la luteina, le vitamine A ed E, i sali minerali (quali lo zinco, il rame e il selenio) e gli antiossidanti vegetali (quali la zeaxantina e l’astaxantina). Tuttavia la loro possibile efficacia è stata ridimensionata dallo studio AREDS2.

La terapia fotodinamica (PDT)

La forma umida (essudativa) è stata trattata, soprattutto in passato (oggi si predilige l’uso delle iniezioni intravitreali con farmaci anti-vegf), con la terapia fotodinamica, attuata mediante un tipo particolare di laser, previa iniezione endovenosa di una sostanza chiamata verteporfina. Tale trattamento laser, consente l’occlusione selettiva dei nuovi vasi (crea dei trombi che chiudono i capillari nocivi), cercando di bloccare l’evoluzione della malattia.. Il trattamento può essere ripetuto nel tempo se la malattia dovesse ripresentarsi a distanza di mesi (recidiva).

Le iniezioni intravitreali

Attualmente il trattamento di prima scelta per la maculopatia essudativa è rappresentato dalle iniezioni intravitreali di farmaci anti-VEGF. Si tratta di sostanze che agiscono inibendo la proliferazione di nuovi vasi sanguigni della retina (azione antiangiogenica), che provocano la comparsa di membrane sottoretiniche e di sanguinamenti. Questi farmaci, pegaptanib sodico,  bevacizumab[3], ranibizumab [4], aflibercept, e brolucizumab (sono i nomi dei principi attivi), permettono solitamente di ottenere dei buoni risultati nella cura delle degenerazioni maculari essudative, cercando di rallentare/bloccare la malattia e mirando ad ottenere una stabilizzazione del visus del paziente.

La loro somministrazione deve essere effettuata in ambiente sterile e affinché il trattamento possa essere efficace va ripetuto per alcuni mesi. Se, invece, non dovessero esserci benefici o  le corrette indicazioni, ovviamente la somministrazione delle iniezioni dovrà essere sospesa.

Ricerche scientifiche relative ai primi farmaci anti-VEGF utilizzati per la maculopatia essudativa

In concomitanza all’utilizzo dei primi farmaci anti-vegf somministrati per via intravitreale, sono state condotte una serie di ricerche scientifiche per verificarne l’efficacia e la sicurezza. In particolare, una ricerca pubblicata sul New England Journal of Medicine [5] nel 2011, è giunta alla conclusione che, a distanza di un anno dall’inizio del trattamento con iniezioni intravitreali, le due molecole generalmente utilizzate (soprattutto all’inizio) contro l’AMD umida (bevacizumab e ranibizumab) avevano i medesimi effetti sull’acuità visiva. “Test clinici – puntualizzano i ricercatori dello studio chiamato CATT (Comparison of Age-related Macular Degeneration Treatments Trials) – hanno stabilito l’efficacia del ranibizumab per il trattamento della degenerazione maculare legata all’età (AMD) neovascolare. Inoltre il bevacizumab viene usato off-label (ossia esulando dalle indicazioni del foglietto illustrativo, ndr) per trattare l’AMD, nonostante l’assenza di analoghi dati a supporto”. In Italia può essere utilizzato come off-label ossia andando oltre le indicazioni contenute nel foglietto illustrativo stesso.

Durante lo studio citato, condotto su 1208 pazienti affetti da AMD neovascolare, “sono state somministrate iniezioni intravitreali di ranibizumab o di bevacizumab in base a una cadenza mensile oppure al bisogno con valutazione mensile. Il risultato primario è stato un cambiamento medio nell’acuità visiva a un anno, con un limite non inferiore di 5 lettere [guadagnate] sull’ottotipo”. Come risultati – prosegue il New England Journal of Medicine – bevacizumab somministrato mensilmente è stato equivalente al ranibizumab somministrato mensilmente, rispettivamente con 8,0 e 8,5 lettere guadagnate“. Inoltre, proseguono i ricercatori, “la diminuzione media dello spessore retinico centrale è stata maggiore nel gruppo del ranibizumab mensile (196 µm) rispetto agli altri gruppi (da 152 a 168 µm)”. In conclusione, si legge ancora sulla prestigiosa pubblicazione britannica, “ad un anno il bevacizumab e il ranibizumab hanno avuto effetti equivalenti sull’acuità visiva quando somministrati secondo lo stesso protocollo. Il ranibizumab somministrato al bisogno, con una valutazione mensile, ha avuto effetti sulla visione equivalenti a quelli del ranibizumab somministrato mensilmente”. Tuttavia, conclude il CATT, “le differenze nell’incidenza di seri effetti collaterali richiedono ulteriori studi”.

Il 2 maggio 2012 la rivista Ophthalmology (rivista dell’Accademia Americana di Oftalmologia) ha pubblicato on-line uno studio (a firma degli stessi ricercatori del CATT) in cui si concludeva quanto segue: “In un periodo di due anni il ranibizumab e il bevacizumab hanno effetti simili sull’acuità visiva”. Lo studio – multicentrico (condotto in diverse università americane e presso il National Eye Institute statunitense) e randomizzato (ossia il trattamento è stato scelto casualmente) – è stato condotto su 1107 pazienti affetti da degenerazione maculare correlata all’età di tipo neovascolare. Anche l’American Academy of Ophthalmology ha dato risalto alla notizia nel proprio sito ufficiale, specificando tra l’altro che “nello studio biennale i tassi di gravi eventi come l’ictus, l’infarto e il decesso sono stati simili in chi ha ricevuto uno dei due farmaci”. Come avvenuto il primo anno – scrive ancora l’AAO – anche nel secondo si è manifestata una percentuale più alta di effetti collaterali non specifici gravi nei pazienti a cui veniva somministrato bevacizumab (40%) rispetto a quelli trattati con ranibizumab (32%). “I ricercatori, osserva ancora l’American Academy of Ophthalmology, sostengono che l’importanza degli effetti collaterali non è chiara; tuttavia potrebbe essere correlata al fatto che l’età media dei pazienti del CATT era di 80 anni, una fascia della popolazione in cui le malattie croniche o acute sono più comuni e ci si attende un tasso di ospedalizzazione più elevato”.

In un altro studio pubblicato nel 2013 sempre su Ophthalmology i ricercatori scrivono che entrambi i principi attivi (ranibizumab e bevacizumab) “sono trattamenti molto efficaci nel preservare l’acuità visiva (VA) nelle persone con degenerazione maculare correlata all’età (AMD)” [6].

Nelle conclusioni di una ricerca pubblicata on-line su Retina il 7 agosto 2014 si legge: “Il bevacizumab e il ranibizumab hanno avuto un’efficacia equivalente sulla migliore acuità visiva corretta nel trattamento della degenerazione maculare legata all’età. Il ranibizumab ha avuto la tendenza a consentire un miglior risultato anatomico. Non ci sono state differenze tra i due farmaci nei tassi di mortalità, di eventi aterotrombotici o di eventi trombotici venosi”; ma saranno necessari ulteriori studi per averne ulteriori conferme [7].

Evoluzione dei farmaci anti-VEGF 

Il primo farmaco anti-VEGF ad essere introdotto e approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) è stato il Pegaptanib nel 2004. Tuttavia, in relazione alla limitata percentuale di pazienti con un significativo miglioramento dell’acuità visiva, questo trattamento è stato poi superato dall’uso di farmaci più efficaci, quali Ranibizumab, Bevacizumab e Aflibercept. La molecola del Ranibizumab si è dimostrata essere piuttosto efficace in termini di mantenimento dell’acuità visiva del paziente, garantendo inoltre un’elevata sicurezza locale e sistemica. Il Bevacizumab è una molecola più grande, utilizzata comunque per il trattamento della AMD neovascolare come molecola alternativa e più economica rispetto ad altre. Il trattamento con i suddetti farmaci intravitreali prevede un’iniezione al mese per i primi 3 mesi, ed eventuali successive somministrazioni in base alla risposta del paziente.
Una relativamente nuova risorsa è rappresentata dall’Aflibercept, molecola per la quale è suggerito un regime di trattamento con iniezioni intravitreali mensili per i primi tre mesi, seguite da iniezioni ogni 8 settimane.
Sempre nell’ambito dei farmaci anti-VEGF, come nuova cura (ottobre 2019) per il trattamento della AMD neovascolare, è stato approvato da parte della FDA il Brolucizumab. Tale approvazione è poi giunta anche per l’Europa nel 2020. Si tratta di una nuova molecola, che si è dimostrata di pari efficacia rispetto all’Aflibercept, per il cui utilizzo è prevista sempre una somministrazione intravitreale mensile per i primi tre mesi (dose di carico), per poi passare ad un intervallo di trattamento ogni 12 settimane.

Infine, a Settembre 2022 la Commissione europea (CE) ha approvato Faricimab come nuovo farmaco per il trattamento della AMD umida. Il consenso informato della SOI cita: “Il trattamento della degenerazione maculare senile umida con Faricimab prevede iniezioni intravitreali ripetute a distanza di un mese per i primi 4 mesi. Successivamente, sulla base degli esiti anatomici e/o visivi a giudizio del medico oculista tra 20 e 24 settimane dopo l’inizio del trattamento, si raccomanda una valutazione dell’attività della malattia in modo da potere personalizzare la terapia. Nei pazienti senza attività di malattia, deve essere considerata la possibilità di somministrare faricimab ogni 16 settimane (4 mesi). Nei pazienti con attività di malattia, deve essere considerato il trattamento ogni 8 settimane (2 mesi) o 12 settimane (3 mesi). Esistono dati di sicurezza limitati per intervalli tra le iniezioni pari o inferiori a 8 settimane”.

Prospettive future di trattamento dell’AMD 

Una delle possibili prospettive future della terapia potrà essere basata su studi a carattere genetico. Inoltre, molto promettente è l’impiego di cellule staminali (in particolare quelle adulte riprogrammate), con cui negli anni a venire si potrà probabilmente rigenerare la retina. Risultati incoraggianti sono stati ottenuti, ad esempio, nel caso dell’AMD secca negli USA (approfondisci).

Altri gruppi di ricerca si stanno concentrando sugli accumuli proteici dannosi per la retina (drusen), cercando di rendere più efficiente la loro rimozione (autofagia). Tali meccanismi, tuttavia, necessitano di ulteriori studi.Bisogna però considerare che, essendo l’AMD una malattia retinica dovuta a diversi fattori, una cura risolutiva (specialmente per la forma secca) non è facile da mettere a punto.

In ambito riabilitativo, si sta utilizzando con un certo successo la tecnica del biofeedback, che consiste nella fotostimolazione neuronale dei recettori retinici attraverso degli spot di luce ad una particolare frequenza, emessi da dispositivi dedicati. Il biofeedback, viene effettuato nella riabilitazione dei pazienti con maculopatia in modo da aumentare la stabilità della fissazione e potenziare l’acutezza visiva. Utili anche gli ausili per gli ipovedenti quali i videoingranditori (disponibili oggi in molti centri ospedalieri). E’ importante diagnosticare precocemente i primi sintomi della degenerazione maculare legata all’età, in modo da attuare le misure preventive più idonee. Tuttavia i pazienti devono comprendere che si tratta di una patologia degenerativa e che, come tale, può lentamente aggravarsi nel tempo; talvolta tutte le terapie effettuate potrebbero non essere sufficienti e, quindi, è il caso di non avere aspettative eccessive.

UN CORRETTO STILE DI VITA: ALIMENTAZIONE VARIA, NIENTE FUMO E PIU’ ESERCIZIO FISICO

alimentazione sanaAll’aumentare dell’incidenza della degenerazione maculare legata all’età è cresciuto anche il numero degli studi effettuati.

Eliminare il fumo è la prima buona pratica di vita. Inoltre controlli accurati del sistema cardiovascolare sono assolutamente raccomandabili. È stato stimato che in chi fuma il rischio di essere colpiti da AMD aumenta fino a tre volte. [14]

Non va assolutamente trascurato l’esercizio fisico moderato, importante ad ogni età. Numerosi studi hanno ipotizzato, infatti, che per chi lo pratica regolarmente sia più difficile essere colpiti dalla degenerazione maculare legata all’età o, se questo avviene, la sua evoluzione è generalmente più lenta. Infine, non bisogna assolutamente trascurare il fatto che i raggi ultravioletti possano contribuire a danneggiare la macula: specialmente se si sono avuti altri casi di AMD in famiglia, bisogna prestare più attenzione al corretto uso di occhiali scuri con lenti a norma di legge (vedi consigli utili). Uno dei principali fattori di rischio potrebbe proprio essere l’esposizione prolungata e cumulativa ai raggi ultravioletti, oltre naturalmente all’età, dunque può essere importante far uso di filtri di buona qualità.

Leggi l’opuscolo sull’AMD

Carta dei diritti del paziente colpito da maculopatia.

 

[1] Nei familiari di primo grado malati di AMD il rischio di svilupparla è superiore, rispetto alla popolazione generale, dalle 3 alle 6 volte. Esistono indicativamente cinque categorie di geni coinvolti: quelli che controllano l’infiammazione e la risposta cellulare, il metabolismo e il trasporto
dei lipidi, la matrice extracellulare e l’adesione cellulare, l’angiogenesi e la risposta allo stress cellulare.

[2] è stimata attorno al 75%

[3] L’Avastin, originariamente sintetizzato come principio attivo di un trattamento antitumorale (contro il cancro del colon retto), è stato poi impiegato anche per altri scopi, compresi quelli oftalmici, vista la sua proprietà di inibire la proliferazione incontrollata dei vasi retinici dannosi. Viene utilizzato esclusivamente a scopi di ricerca; ad uso oftalmico è impiegato in Italia solo come off-label, ossia esulando delle indicazioni terapeutiche riportate nel foglietto illustrativo.

[4] nome commerciale Lucentis

[5] “Ranibizumab and Bevacizumab for Neovascular Age-Related Macular Degeneration”, The CATT Research Group, N Engl J Med. 2011 Apr 28., e-pub. Lo studio è stato finanziato dal National Eye Institute (ClinicalTrials.gov number, NCT00593450).

[6] Glenn J. Jaffe, Daniel F. Martin, Cynthia A. Toth, Ebenezer Daniel, Maureen G. Maguire, Gui-Shuang Ying, Juan E. Grunwald, Jiayan Huang, “Macular Morphology and Visual Acuity in the Comparison of Age-related Macular Degeneration Treatments Trials”, Comparison of Age-related Macular Degeneration Treatments Trials Research Group, Ophthalmology– September 2013 (Vol. 120, Issue 9, Pages 1860-1870, DOI: 10.1016/j.ophtha.2013.01.073)

[7] Chen G, Li W, Tzekov R, Jiang F, Mao S, Tong Y, “Bevacizumab versus ranibizumab for neovascular age-related macular degeneration: a meta-analysis of randomized controlled trials”, Retina, 2014 Aug 7 (Epub ahead of print)

[8] Si veda ad esempio: Evans JR et al, “28,000 cases of age related macular degeneration causing visual loss in people aged 75 years and above in the UK may be attributable to smoking”, British Journal of Ophthalmology (2005)

Scheda informativa a cura dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità-IAPB Italia onlus

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Pagina pubblicata il 31 luglio 2007. Ultimo aggiornamento: 14/02/2023

Ultima revisione scientifica: 14/02/2023 

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