Retinopatia sierosa centrale

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Retinopatia sierosa centrale

Cos’è?

Si tratta di una malattia oculare caratterizzata dal sollevamento della zona centrale della retina a causa dell’accumulo di liquido sieroso.

In particolare, si evidenzia il distacco delimitato di uno strato retinico intermedio (il neuroepitelio) nella regione maculare, a volte associato a distacco sieroso dell’epitelio pigmentato retinico (EPR). Lo stravaso di siero, dai vasi coroideali, passando attraverso lesioni focali dell’EPR (punti di fuga), si accumula nello spazio sottoretinico causandone il distacco. Si tratta di una patologia sporadica, generalmente monolaterale, che può tuttavia colpire entrambi gli occhi in maniera più o meno simmetrica. In genere il sesso maschile tra i 30 e i 50 anni di età (con tendenza ad una personalità di tipo ansioso) è quello più colpito; le donne affette da CSC hanno generalmente un’età media più alta degli uomini. È meno frequente nella razza nera e può presentarsi in forme particolarmente gravi negli asiatici.

retina colpita da sierosa centrale

Che cause ha?

Sulle cause che determinano la sierosa centrale non si hanno dati certi. Un elemento significativo, che accomuna quasi tutti coloro che ne sono affetti, è che sembrerebbe essere favorita dello stress (si presenta di solito in persone particolarmente attive e competitive). L’induzione o l’aggravamento della malattia sono stati associati a fattori predisponenti quali: ipertensione arteriosa, trapianto di organi, reflusso gastroesofageo, abuso di alcool, terapia steroidea orale e/o inalatoria, gravidanza e patologie sistemiche come il Lupus Eritematoso Sistemico e la Sindrome di Cushing.

Sono stati osservati anche importanti fattori genetici che possono predisporre allo sviluppo della CSC. [van Dijk EHC, Schellevis RL, Breukink MB, Mohabati D, Dijkman G, Keunen JEE, Yzer S, den Hollander AI, Hoyng CB, de Jong EK, Boon CJF, “[Familial Central Serous Chorioretinopathy”, Retina, 2017 Nov 28. doi: 10.1097/IAE.0000000000001966 (Epub ahead of print)].

Quali sono i sintomi e i segni della CSC?

Foto (Oct): sollevamento della retina per accumulo di liquidoL’esordio della malattia è spesso subdolo ed i sintomi sono generalmente monolaterali. I disturbi visivi più frequentemente rilevati sono:

  • visione appannata (spesso si ha l’impressione di guardare come attraverso una goccia d’acqua);
  • presenza di uno scotoma centrale relativo;
  • metamorfopsie (distorsione delle immagini);
  • visione più scura;
  • colori sbiaditi;
  • riduzione dell’acuità visiva.

All’esame del fondo oculare si osserva tipicamente un sollevamento sieroso della retina neurosensoriale localizzato nella regione maculare. Si possono evidenziare uno o più distacchi sierosi dell’epitelio pigmentato, in associazione o anche in assenza del distacco retinico. Col tempo, in sede sottoretinica, si possono notare piccoli precipitati giallastri di materiale proteico o di derivazione dai segmenti esterni dei fotorecettori nell’area del distacco

Come si effettua una diagnosi?

Per identificare la presenza di una corioretinopatia sierosa centrale è indispensabile sottoporsi ad una visita oculistica completa. In prima istanza, lo specialista attraverso l’anamnesi raccoglie più informazioni possibili sul paziente: età, stile di vita, farmaci assunti, presenza di eventuali patologie sistemiche, modalità e tempi d’insorgenza dei disturbi visivi. Alla visita oculistica l’esame del visus può risultare più o meno alterato, il segmento anteriore e la pressione oculare sono di solito nella norma, all’esame del fondo oculare si evidenziano, in sede maculare, i segni tipici della malattia (vedi paragrafo precedente). Per un approfondimento può essere utile sottoporsi ad esami strumentali specifici.

 

  • L’OCT (tomografia a coerenza ottica), è una tecnica diagnostica non invasiva che consente di rilevare e monitorare nel tempo, il sollevamento retinico maculare nei pazienti con CSC. Nelle forme croniche, all’esame OCT è possibile rilevare la presenza di cisti intraretiniche e un ispessimento coroideale. In caso di complicanze, si può evidenziare la comparsa di neovasi, facilmente individuabili con l’angio-OCT, una metodica angiografica semplice e non invasiva, che non ha bisogno dell’ iniezione in vena di coloranti.

 

  • La fluorangiografia (FAG), è l’esame che da sempre è stato utilizzato per definire le caratteristiche cliniche della CSC. E’ tipico il rilievo di un “leakage” focale o multifocale a livello dell’epitelio pigmentato retinico. Gli eventuali piccoli distacchi dell’epitelio pigmentato risultano iperfluorescenti e chiaramente rilevabili. Nella CSC cronica la fluorangiografia può evidenziare la presenza di un’ epiteliopatia retinica diffusa.

 

  • L’ angiografia con verde di indocianina, consente di acquisire informazioni importanti per monitorare il decorso della malattia. Con l’esame è possibile rilevare la diffusione del colorante in aree più o meno estese della coroide sia in corrispondenza delle alterazioni dell’epitelio pigmentato evidenziate dalla fluorangiografia, che in zone dove l’epitelio appare integro. Un’importante iperpermeabilità di alcune zone della coroide caratterizza i pazienti con CSC, sia nei momenti di attività che di inattività della malattia. L’angiografia con verde di indocianina permette anche di individuare eventuali neovascolarizzazioni occulte che possono simulare o complicare una CSC cronica.

 

  • L’autofluorescenza è un esame semplice per valutare nel dettaglio il fondo oculare: consente di evidenziare le aree di degenerazione e atrofia dell’epitelio pigmentato (e dei fotorecettori) come conseguenza della prolungata persistenza di liquido sotto la retina. Rappresenta, pertanto, una metodica importante per riconoscere la cronicità della malattia. Da una semplice immagine in autofluorescenza possiamo renderci conto se siamo di fronte a un processo essudativo recente, oppure che dura da diverso tempo (mesi o anni).

 

Il liquido che si è accumulato tra gli strati retinici può riassorbirsi spontaneamente entro alcuni mesi e si può recuperare l’acuità visiva originaria; ma è comunque importante farsi seguire da uno specialista che possa prescrivere gli esami più opportuni, monitorando costantemente lo stato di salute della retina. Inoltre sono stati rilevati cambiamenti nel microcircolo retinico di persone cronicamente affette da corioretinopatia sierosa centrale. [Sugiura A, Fujino R, Takemiya N, Shimizu K, Matsuura M, Murata H, Inoue T, Obata R, Asaoka R, “[The association between visual function and retinal structure in chronic central serous chorioretinopathy“, Sci Rep. 2017 Nov 24;7(1):16288. doi: 10.1038/s41598-017-16339-9].

C’è una terapia univoca?

No, non vi è un protocollo terapeutico specifico, perché nessun trattamento medico sino ad oggi si è dimostrato sempre valido. Si consiglia generalmente di ridurre lo stress e di condurre uno stile di vita più tranquillo ma queste, chiaramente, sono indicazioni che non sempre i pazienti riescono a seguire. Svariati tipi di farmaci (tranquillanti, antinfiammatori non steroidei, beta bloccanti) sono stati provati senza grande successo, così come inefficace ed anzi in grado di indurre un peggioramento clinico, si è dimostrato essere il cortisone. In qualche caso sembrerebbe avere una certa utilità l’uso di diuretici che riducendo l’accumulo di fluidi sotto la retina, possono accelerare la risoluzione dei sintomi. Attualmente la letteratura medico-scientifica riporta buoni risultati ottenuti con la fotocoagulazione laser, che andrebbe ad agire proprio sul punto di perdita; ma questa eventualità, data la buona prognosi, deve essere valutata dal singolo oculista con molta attenzione e in casi particolari. Il trattamento laser non è indicato, invece, nei casi in cui il punto di fuga sia foveale o nei casi di punti di fuga multipli. Dobbiamo inoltre ricordare che la fotocoagulazione comporta la distruzione di tessuto retinico con eventuali danni a livello visivo (calo del visus, scotoma localizzato, riduzione della sensibilità al contrasto, alterata percezione dei colori). Esiste anche un’altra opzione terapeutica rappresentata dalla terapia fotodinamica indicata anche in quei casi in cui i punti di fuga si presentino iuxtafoveali o sottofoveali e nelle forme croniche; seppur valida, la terapia fotodinamica non è comunque esente da possibili effetti collaterali importanti quali per esempio l’atrofia dell’EPR e la formazione di scotomi localizzati. Più di recente è stato proposto un trattamento con laser giallo micropulsato, che dovrebbe attivare l’epitelio pigmentato favorendo il riassorbimento del liquido sottoretinico. L’efficacia di questo tipo di laser è variabile da un caso all’altro, risulta comunque essere un trattamento indolore, sicuro e potenzialmente ripetibile. Infine, nei casi in cui la CSC si complichi con una neovascolarizzazione coroideale, è indicato il trattamento con iniezioni intravitreali di farmaci anti-VEGF.

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Pagina pubblicata il 11 marzo 2008. Ultimo aggiornamento: 13 febbraio 2025

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Retinopatia del prematuro (ROP)

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Retinopatia del prematuro (ROP)

Cos’è?

La retinopatia del prematuro (ROP) o retinopatia del pretermine, in passato chiamata “fibroplasia retrolentale”, è una malattia vascolare della retina che si manifesta in neonati prematuri e si presenta, in genere, in tutti e due gli occhi, anche se può avere gradi diversi.

Da cosa è causata?

È provocata dalla formazione di nuovi vasi sanguigni (neovascolarizzazioni) nella periferia retinica conseguenti alla prematurità e al basso peso corporeo alla nascita. In particolare l’ossigenoterapia a cui sono sottoposti i prematuri può determinare la comparsa della malattia. Anche eventuali crisi di apnea, infezioni, trasfusioni e persistenza del dotto di Botallo aumentano il rischio di contrarla. Il peso alla nascita è, comunque, sempre il fattore di rischio più importante: si è visto che i nati con peso inferiore a 1250 grammi hanno un rischio elevato di sviluppare una forma medio-grave di retinopatia del prematuro.

Quali sono i sintomi?

Il neonato non è in grado, ovviamente, di riferire alcun sintomo. L’unico segno di malattia può essere la presenza di un riflesso bianco (leucocoria) che, tuttavia, si può osservare solo nelle fasi più avanzate e gravi. Per questo è fondamentale che tutti i nati prematuri siano sottoposti a visite frequenti (anche settimanali) del fondo oculare durante le prime settimane di vita, in modo da poter diagnosticare il prima possibile eventuali segni della patologia; nel caso in cui vengano riscontrati è raccomandabile valutare giorno per giorno l’evoluzione del quadro clinico. L’evoluzione clinica è rapida e può portare a un distacco di retina totale, con conseguente cecità.

Come si effettua la diagnosi?

Attraverso l’esame del fondo oculare. La malattia presenta diversi stadi; purtroppo negli stadi più avanzati si ha un recupero scarso, mentre per le forme iniziali è importantissimo che il controllo sia frequente e venga eseguito da oculisti specializzati. Questo perché anche impercettibili alterazioni delle periferia retinica possono evolvere nel giro di pochi giorni in quadri più gravi.

Che terapie sono disponibili?

Attualmente esistono dei protocolli terapeutici stabiliti dalla comunità scientifica che prevedono determinati trattamenti a seconda dello stadio di malattia. Negli stadi iniziali si esegue un criotrattamento della retina o un suo trattamento laser: “bruciando” la retina periferica si evita che stimoli la formazione dei nuovi vasi dannosi. Quando si manifestano gli ultimi stadi della malattia è necessario intervenire chirurgicamente con vitrectomia o chirurgia del distacco di retina (piombaggio sclerale).

Leggi anche: ROP, il successo col trattamento laser precoce Nuovi orizzonti per i nati prematuri ROP, trattamento precoce nelle forma grave

 

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Pagina pubblicata il 3 dicembre 2007. Ultimo aggiornamento: 7 febbraio 2019. 

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Retinite pigmentosa

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Retinite pigmentosa


Si tratta di una patologia rara che appartiene a un gruppo di malattie ereditarie caratterizzate da una degenerazione progressiva della retina in entrambi gli occhi. Provoca la perdita graduale della visione notturna e del campo visivo periferico, ma agli ultimi stadi si può verificare anche una perdita della visione centrale. A causa della retinite pigmentosa (nota anche come “retinosi pigmentaria” o “retinopatia pigmentosa”) si verifica una perdita dell’acutezza visiva, con un progressivo restringimento del campo visivo, che può progredire fino all’ipovisione e, nei casi più gravi, alla cecità.

Come funziona la retina?

La retina è costituita da cellule nervose disposte in strati; immaginiamola come una pellicola fotografica. È in assoluto la struttura del nostro occhio più importante ed è essenziale nel processo della visione. Infatti i raggi luminosi che giungono dall’esterno vengono messi a fuoco sulla retina e qui trasformati in segnali elettrochimici che, attraverso il nervo ottico, giungono al cervello, che normalmente le percepisce come immagini (ricostruite grazie agli input provenienti dal nervo ottico). Nel caso in cui le cellule della retina siano danneggiate la visione viene meno. Nella retina esistono circa 131 milioni di cellule sensibili alla luce (fotorecettori). Se ne distinguono due tipi:

  1. I coni, così chiamati per la loro forma, recepiscono soprattutto i particolari delle immagini e i vari colori; ve ne sono di tre tipi diversi, che riconoscono rispettivamente il rosso, il verde e il blu (una loro combinazione viene però interpretata dal cervello come un colore specifico). Nella retina ve ne sono circa 6 milioni e si concentrano soprattutto al centro (macula); quindi, sono ovviamente fondamentali per la visione centrale (lettura, riconoscimento dei volti, guida, ecc.). La loro capacità di distinguere i dettagli è circa cento volte superiore rispetto ai bastoncelli.
  2. I bastoncelli, dalla linea allungata ed affusolata, reagiscono prevalentemente al contrasto fra il chiaro e lo scuro nonché al movimento degli oggetti. Sono circa 125 milioni e si concentrano nella zona periferica della retina, dove sono presenti in misura venti volte superiore rispetto ai coni. Nella parte centrale della nostra retina prevalgono dunque i coni, mentre sono pochi i bastoncelli. Questi ultimi nell’area periferica sono, invece, assai più numerosi; grazie ad essi possiamo avvertire un corpo in movimento (con la coda dell’occhio), anche se non siamo in grado di distinguerne i particolari (perché il riconoscimento fine avviene per mezzo dei coni).

Quante persone colpisce la retinite pigmentosa?

La retinite pigmentosa si stima che colpisca 1-5 persone su 10000 [1] a livello genetico. Complessivamente le degenerazioni retiniche ereditarie colpirebbero circa 2 milioni di persone nel mondo [2], di cui circa 1,5 milioni sarebbero affette da retinite pigmentosa. Purtroppo attualmente non esiste ancora alcuna cura efficace, nonostante diverse équipe di ricerca ci stiano lavorando.

Molto spesso la retinite pigmentosa compare tra la pubertà e l’età matura, ma non sono rari gli esempi di bambini colpiti nella prima infanzia. La capacità visiva della persona colpita subisce una riduzione progressiva. L’unica informazione certa di cui gli scienziati dispongono è l’origine genetica della retinite pigmentosa, la quale viene trasmessa ereditariamente, di generazione in generazione, seguendo meccanismi ormai noti (i geni responsabili sarebbero almeno 64 [3]). Secondo altre fonti si supererebbero persino i 70 geni “difettosi”. [4]

Si possono fare figli con un malato di retinite pigmentosa?

Se si vogliono fare figli con una persona colpita da retinite pigmentosa (RP) è senz’altro opportuno prima ricorrere ad approfonditi esami genetici per poter quantificare i rischi di trasmissione della malattia.

Quali forme esistono di retinite pigmentosa?


Le forme genetiche di retinite pigmentosa sono essenzialmente quattro:

  1. autosomica dominante
    a) può colpire maschi e femmine con pari frequenza;
    b) non salta le generazioni.
  2. autosomica recessiva
    a) la malattia colpisce con pari frequenza entrambi i sessi;
    b) la malattia salta le generazioni, anzi non è infrequente l’evenienza che in una famiglia coinvolta compaia a memoria d’uomo un solo caso, ovvero che sia simulata una forma sporadica.
  3. legata al cromosoma X (cioè legata al sesso)
    Secondo questo tipo di trasmissione ereditaria, risultano colpiti dalla malattia solo soggetti di sesso maschile, i quali però ereditano il gene patologico dalla madre che è portatrice sana; data una donna in tale condizione, il rischio di malattia per ogni figlio maschio è del 50%.
  4. sporadica
    Le forme sporadiche (circa il 30% di tutti i casi) prevedono la presenza di un unico caso a memoria d’uomo in una famiglia. La sporadicità è solo una constatazione familiare, ma è molto difficile escludere l’eredità recessiva oppure quella legata al sesso, se la persona affetta è un maschio.

Bisogna differenziare, inoltre, la retinite pigmentosa primaria, in cui esiste solo l’interessamento oculare, da quella associata a malattie extraoculari.

Quali sono i sintomi?

I principali sintomi che possono indurre il medico a sospettare di trovarsi di fronte ad un caso di retinite pigmentosa sono essenzialmente due:

  1. Cecità crepuscolare e notturna
    Ci può essere difficoltà a vedere in condizioni di scarsa illuminazione (muoversi e guidare di sera o di notte) o un ritardato adattamento quanto si passa da ambienti illuminati a quelli oscuri. Questo fenomeno è dovuto al fatto che, almeno per la maggior parte dei casi, la malattia – almeno nelle prime fasi del suo sviluppo – aggredisce prevalentemente i bastoncelli.Simulazione della visione di malato con retinite pigmentosa (Copyright Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità-IAPB Italia onlus)
  2. Restringimento del Campo Visivo (visione tubulare)
    Si manifesta con una difficoltà a percepire oggetti posti lateralmente oppure non si notano né gradini né ostacoli bassi. L’alterazione del campo visivo è progressiva e può coinvolgere anche la parte centrale della retina, con perdita delle capacità visive centrali. La velocità di progressione della malattia e l’età di comparsa dei sintomi variano in relazione a molti fattori tra cui il modello di trasmissione genetica. Si riscontra, inoltre, un’aumentata sensibilità all’abbagliamento (che si verifica anche con molte altre patologie oculari); svaniscono i contrasti e diventa difficile percepire l’ambiente circostante.

Come si effettua la diagnosi?

La diagnosi di retinite pigmentosa in presenza di tutti i sintomi classici è facile ed è di pertinenza dell’oculista (e del genetista). Vengono generalmente effettuati:

La malattia può essere diagnosticata fin dall’infanzia, nell’adolescenza e, non di rado, anche in età adulta. Nei casi dubbi, la diagnosi si basa su tutti i dati clinici ottenibili (età di esordio, modalità evolutive, eventuale associazione con altri sintomi oculari od a carico di altri organi ed apparati) e su un approfondito studio elettrofisiologico (elettroretinogramma ed elettroculogramma) ed adattometrico. Possono risultare utili e complementari lo studio del senso cromatico e la fluoroangiografia retinica. E’ necessario, inoltre, esaminare tutto il nucleo familiare, allo scopo di definire il tipo di trasmissione ereditaria.

L’esame del visus

Permette di valutare l’acutezza visiva nella porzione centrale della retina. Consiste nella lettura di caratteri di varia grandezza alla distanza di 5 metri.

L’esame del fondo oculare

Ha lo scopo di valutare la morfologia della retina e di ricercare la presenza di caratteristiche macchie di pigmento sulla superficie retinica, che nella malattia hanno un aspetto tipico detto ad osteoblasti. Talune forme di retinite, pur presentando gli stessi sintomi, non sono però caratterizzate dalla presenza di macchie sul fondo dell’occhio.

L’esame del campo visivo
Permette di valutare la sensibilità retinica ad uno stimolo luminoso nelle varie zone della retina. È utile per avere una documentazione oggettiva delle difficoltà percepite dal paziente durante il movimento per monitorare l’evoluzione della malattia.

L’elettroretinogramma (ERG)
Consiste nella registrazione dell’attività elettrica della retina in risposta a particolari stimoli luminosi. Permette di valutare in modo distinto la funzionalità dei due tipi di fotorecettori (i coni ed i bastoncelli). L’elettroretinogramma è un esame molto importante per diagnosticare la retinite pigmentosa, poichè anche quando la malattia è ancora in fase iniziale, il tracciato che ne deriva è quasi sempre estinto e molto appiattito.

La fluorangiografia (FAG)
Si inietta per via endovenosa una sostanza fluorescente e si eseguono delle fotografie della retina in tempi diversi. Infatti, tramite la circolazione sanguigna, la sostanza fluorescente giunge sino alla retina, rendendo visibili, colorandole, le arterie, i capillari e le vene ed indica lo stato delle loro pareti.

Che decorso ha la malattia?

Il decorso della malattia ha una durata estremamente variabile, ma comunque è sempre progressivo ed invalidante. Nella maggioranza dei casi i sintomi si aggravano e purtroppo il campo visivo si restringe sempre più fino a chiudersi completamente. Compaiono inoltre anche altri disturbi, come l’abbagliamento, l’incapacità di distinguere i colori e una particolare forma di cataratta. Malauguratamente l’esito finale è, in molti casi, la cecità assoluta.

Si può curare?


Attualmente non è considerata una malattia curabile. Molte speranze erano state riposte sulle possibilità della terapia iperbarica (ossigenoterapia; OTI) per arrestare l’evoluzione della malattia. Numerosi studi hanno effettivamente registrato una risposta cellulare positiva, dimostrata anche strumentalmente con l’elettroretinogramma (ERG), che evidenziava un incremento della sua ampiezza statisticamente significativo nei pazienti trattati in camera iperbarica con ossigeno. Purtroppo però l’ossigenoterapia non è risolutiva e non elimina il problema all’origine.

Sono molte le strade di ricerca aperte, nonostante pochi progressi concreti siano stati compiuti fino ad oggi sul fronte delle cure clinicamente possibili. Attualmente i filoni più promettenti sono la terapia genica, il ricorso a cellule staminali e il trapianto di retina o di fotorecettori.

Secondo uno studio pubblicato il 16 novembre 2016 su Nature [5] da ricercatori che lavorano in California, all’orizzonte ci sarebbero nuove possibilità di trattamento grazie a una nuova tecnica pionieristica di correzione genetica (approfondisci). Infatti, in seguito a una sperimentazione condotta su cavie animali in cui era stata indotta artificialmente la retinite pigmentosa, si è avuto un parziale recupero della loro vista. Tuttavia, al momento in cui scriviamo questo risultato non è ancora stato esteso agli esseri umani [6]. Lo stesso discorso vale per uno studio successivo di Ophthalmology [7], condotto sempre con tecnica CRISP di editing genetico da ricercatori della Columbia University (Usa) su cavie murine.

Qualche risultato positivo sembrerebbe, inoltre, avere avuto l’impiego del fattore di crescita nervoso (NGF) sotto forma di collirio sperimentale. Tuttavia i casi che, al momento in cui scriviamo, avrebbero tratto giovamento dalla sua instillazione risulterebbero essere un’esigua minoranza [8].

Infine uno studio pubblicato il 29 settembre 2017 sulla rivista Stem Cell Research & Therapy [9] ha fornito risultati sperimentali limitati ma, per certi versi, incoraggianti: è stata parzialmente rigenerata la retina in otto pazienti impiegando staminali embrionali (il cui impiego è però vietato in Italia e in molti altri Paesi), con un monitoraggio durato due anni e risultati non omogenei (miglioramenti del visus nella maggior parte degli occhi, acuità visiva stabile o peggiorata dopo 24 mesi negli altri). Eppure, “il nostro studio – scrivono ricercatori cinesi del Southwest Eye Hospital, Third Military Medical University – ha confermato per la prima volta, in pazienti divenuti ciechi a causa della retinite pigmentosa, la sicurezza nel lungo periodo e la fattibilità del ripristino della vista mediante terapia con cellule staminali”.

Bisognerà però attendere ulteriori ricerche per capire meglio la portata effettiva di tutte queste sperimentazioni.

Le vitamine possono aiutare?

Secondo alcuni studi l’assunzione di elevati dosaggi di vitamina A potrebbe contribuire a rallentare la progressione della malattia, mentre la vitamina E avrebbe un effetto contrario.

In un esperimento condotto nel lontano 1993 si fa presente che i malati (18-49 anni), nonostante l’assunzione massiccia della vitamina A, subivano comunque un calo della vista (mediamente perdevano una riga l’anno nell’ottotipo). Una recente ricerca condotta su studi precendenti (metastudio), pubblicata a dicembre del 2013, ha concluso comunque che non esistono prove sufficienti che dimostrino l’efficacia della vitamina A (né dell’olio di pesce) nel rallentare la progressione della retinite pigmentosa.

Terapia genica

Si propone di identificare i geni responsabili della malattia, per poter poi intervenire con le tecniche più sofisticate dell’ingegneria genetica. In particolare si mira alla sostituzione dei geni “difettosi” con geni sani e, nel caso della trasmissione autosomica dominante, alla disattivazione dei geni nocivi [10] . Per veicolare il materiale genetico ‘buono’ generalmente si usa un virus vettore (quello del raffreddore) preventivamente reso innocuo. Come se fosse un cavallo di Troia, il rinovirus è in grado di trasportare parti del dna necessarie alla ‘riparazione’ genetica: effettuando delle iniezioni sotto la retina si punta a curare la malattia. Tale approccio ha avuto in parte successo soprattutto sui bambini colpiti da un’altra malattia genetica che colpisce la retina: l’amaurosi congenita di Leber. Tuttavia la retinite pigmentosa coinvolge un numero superiore di geni e, dunque, è più difficile da trattare geneticamente.

Cellule staminali

Con l’impiego di cellule staminali si sta tentando di rimpiazzare i fotorecettori persi a causa della degenerazione retinica. Sono stati ottenuti risultati incoraggianti con staminali embrionali impiantate nella retina dei topi, ma solo in un quarto dei casi; in oltre la metà dei casi, invece, si sono avuti distacco di retina e sviluppo di tumori [11]. Tuttavia uno studio già citato, pubblicato nel 2017, ha assicurato che mediante una tecnica più recente non sono stati indotti tumori. Tuttavia non si possono mai escludere, in linea di principio, complicanze.

Dunque, bisognerà attendere molte altre ricerche affinché l’impiego delle staminali possa essere perfezionato sugli esseri umani, ad esempio nei Paesi dove l’uso delle cellule embrionarie è legale. In alternativa si potrà presumibilmente ricorrere alle cellule staminali riprogrammate (ottenute da cellule adulte), “ringiovanite” mediante tecniche di ingegneria genetica; ma occorreranno ancora molti altri studi affinché le staminali possano essere usare proficuamente nell’uomo a fini di rigenerazione retinica.

Tuttavia è bene chiarire che attualmente non esiste al mondo nessun protocollo clinico approvato che preveda l’uso di staminali per trattare efficacemente la retinite pigmentosa (né altre malattie retiniche degenerative). [12]

Trapianti

L’intento è quello di mettere a punto una tecnica che renda possibile il trapianto di tessuto retinico o, per lo meno, l’innesto di cellule sane su retine malate. Attualmente, tuttavia, il trapianto di retina non è mai stato effettuato con successo (né del tutto né in parte).

Immunologia

Si prefigge di verificare alcune teorie che ipotizzerebbero un’alterazione del sistema immunitario che potrebbe essere il principale fattore scatenante della malattia.

Il futuro dei trattamenti

Il futuro delle cure potrebbe risiedere, nel caso della retinite pigmentosa, nelle cellule staminali e nella terapia genica. In alcuni malati che hanno perso la vista a causa di qtia sono state impiantate sperimentalmente retine elettroniche, restituendo loro (quando l’intervento ha avuto successo) una visione molto limitata.

Vedi anche: Rayapudi S, Schwartz SG, Wang X, Chavis P., “Vitamin A and fish oils for retinitis pigmentosa“, Cochrane Database Syst Rev. 2013 Dec 19;12:CD008428. doi: 10.1002/14651858.CD008428.pub2.

[1Fonte: Orpha.net

[2Attualmente si ritiene che coinvolgano circa 250 geni (con 4500 mutazioni), almeno secondo lo studio scientifico di Lobanova ES, Finkelstein S, Li J, Travis AM, Hao Y, Klingeborn M, Skiba NP, Deshaies RJ, Arshavsky VY, “Increased proteasomal activity supports photoreceptor survival in inherited retinal degeneration“, Nat Commun. 2018 Apr 30;9(1):1738. doi: 10.1038/s41467-018-04117-8

[3Zhang L, Du J, Justus S, Hsu CW, Bonet-Ponce L, Wu WH, Tsai YT, Wu WP, Jia Y, Duong JK, Mahajan VB, Lin CS, Wang S, Hurley JB, Tsang SH, “Reprogramming metabolism by targeting sirtuin 6 attenuates retinal degeneration“, J Clin Invest. 2016 Nov 14. pii: 86905. doi: 10.1172/JCI86905

[4Fonte: AAO

[5Juan Carlos Izpisua Belmonte et al., “In vivo genome editing via CRISPR/Cas9 mediated homology-independent targeted integration“, Nature, 2016 Nov 16, doi: 10.1038/nature20565 (Epub ahead of print)

[6Si veda: “New gene-editing technology partially restores vision in blind animals“, Salk News, 16 novembre 2016

[7Tsai, Yi-Ting et al., “Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats-Based Genome Surgery for the Treatment of Autosomal Dominant Retinitis Pigmentosa, Ophthalmology, 2018

[11Transplantation of Reprogrammed Embryonic Stem Cells Improves Visual Function in a Mouse Model for Retinitis Pigmentosa”, by Wang, Nan-Kai; Tosi, Joaquin; Kasanuki, Jennifer Mie; Chou, Chai Lin; Kong, Jian; Parmalee, Nancy; Wert, Katherine J.; Allikmets, Rando; Lai, Chi-Chun; Chien, Chung-Liang; Nagasaki, Takayuki; Lin, Chyuan-Sheng; Tsang, Stephen H., Transplantation, 15 February 2010, doi: 10.1097/TP.0b013e3181d45a61

[12L’unico impiego approvato a livello oculare è quello delle staminali corneali

Scheda informativa a cura dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità-IAPB Italia onlus
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Pagina pubblicata il 3 aprile 2009. Ultimo aggiornamento: 19 giugno 2019.

Ultima revisione scientifica: 16 marzo 2018.[6101

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Cos’è lo pterigio?

pterigio
Si tratta di una malattia degenerativa oculare che consiste in una crescita anomala di tessuto fibroso e vascolare della congiuntiva bulbare, che arriva a coprire la superficie esterna e trasparente dell’occhio che si trova davanti all’iride (cornea). Si potrebbe considerare una sorta di “callo” oculare morbido. Lo pterigio si sviluppa piuttosto lentamente nel corso degli anni e la sua evoluzione non è costante, bensì caratterizzata da periodi di stabilità e periodi in cui la crescita e più rapida. Quando lo pterigio arriva ad invadere la cornea, quest’ultima  appare biancastra e ricca di vasi, con una superficie non regolare. Tale situazione induce spesso una serie di fastidiosi sintomi per il paziente, oltre che una riduzione significativa del visus. 

Qual è la causa?

Diversi studi hanno messo in evidenza il ruolo svolto dai fattori ambientali nella patogenesi dello pterigio, in particolare hanno evidenziato una correlazione con l’esposizione quotidiana e prolungata ai raggi ultravioletti (UV). Per tale motivo i soggetti maggiormente esposti al rischio di sviluppare uno pterigio sono i marinai, gli agricoltori, gli alpinisti, gli edili, quindi tutte quelle persone che trascorrono diverse ore al giorno all’aria aperta, esponendosi ai raggi del sole, senza utilizzare appositi sistemi di protezione (occhiali scuri contro i raggi UV, cappellini con visiera).   Ci sono anche altri fattori di rischio che sembrerebbero essere coinvolti nell’origine dello pterigio, quali: alterazioni importanti del film lacrimale, stati irritatitvi cronici della superficie oculare, razza, ereditarietà. Infine, va ricordato che lo pterigio prevale nei soggetti di sesso maschile e tende a manifestarsi più frequentemente nei soggetti che hanno raggiunto i 40 anni d’età.

Quali sono i sintomi?

Lo pterigio può essere privo di sintomi specifici, soprattutto nelle fasi iniziali, in caso di situazioni più gravi e/o in presenza d’infiammazione, si presentano frequentemente: arrossamento, bruciore, lacrimazione eccessiva, senso di abbagliamento durante la guida notturna o in occasione di esposizione a fonti di luce artificiale, sensazione di avere un corpo estraneo nell’occhio. Quando lo pterigio si accresce si evidenzia una riduzione del visus che fondamentalmente dipende da due fattori:   insorgenza di un astigmatismo,  dovuto all’estensione dello pterigio sulla cornea con conseguente deformazione della sua curvatura ; invasione della zona ottica (viene coperta la pupilla).

Quali sono i segni?

È possibile vedere anche ad occhio nudo, oltre che con la lampada a fessura, la presenza del tessuto congiuntivale anomalo sulla superficie oculare. Si presenta come un triangolo (in cui si possono distinguere la testa, il collo e il corpo), con l’apice (testa) rivolto verso il centro della cornea. Con la lampada a fessura si può constatare l’abbondanza di vasi. In condizioni d’infiammazione il diametro vascolare è maggiore.

Qual è la terapia?

La terapia è chirurgica: non esistono altre modalità di cura per lo pterigio. Si tratta di un intervento semplice, che si effettua in anestesia locale (con chirurgia ambulatoriale). È indicato soprattutto nei seguenti casi: astigmatismi non correggibili, occlusione della zona ottica, infiammazioni ricorrenti non controllabili con la terapia locale e, in ultimo, per motivi estetici. L’intervento spesso recidiva: lo pterigio può riformarsi. Fondamentale è la prevenzione dello pterigio per chi si espone ai raggi ultravioletti. L’utilizzo di occhiali da sole a norma di legge, infatti, oltre a prevenirne la comparsa, protegge anche le strutture oculari dai potenziali danni delle radiazioni UV (in particolare la retina e il cristallino).

 

 

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Pagina pubblicata il 1 luglio 2008. Ultimo aggiornamento: 24/01/2023

Ultima revisione scientifica: 24 gennaio 2023

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Oncocerchiasi (cecità dei fiumi, oncocercosi)

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Oncocerchiasi (cecità dei fiumi, oncocercosi)

VLUU L110, M110 / Samsung L110, M110

L’oncocerchiasi (oncocercosi), detta anche “cecità dei fiumi”, è causata dall’infezione provocata da un verme (nematode), l’Onchocerca volvulus. Provoca cecità, generalmente a causa di una malattia della cornea (detta cheratite sclerosante), che si accompagna spesso a un’infiammazione interna all’occhio, con conseguenti danni alla retina causati da cicatrizzazione e degenerazione del tessuto nervoso (atrofia). Si ritiene che sia, dopo il tracoma, la seconda causa al mondo di cecità prevenibile tra le malattie contagiose. Tuttavia va detto che, grazie agli sforzi mondiali, sembra essere in via di progressiva riduzione.

Patogenesi

Fino al 50% delle persone sopra i 40 anni di età può essere affetta da questo tipo di cecità nelle aree colpite in modo più grave. L’Onchocerca volvulus è endemico in Africa equatoriale e nell’America meridionale, specialmente lungo i grandi fiumi, dove sono presenti mosche brune che trasmettono l’infezione. Gli uomini contraggono il parassita quando sono morsi dalla femmina infetta di uno di questi insetti. Le larve (microfilarie) penetrano attraverso la pelle e maturano nella forma adulta in noduli sottocutanei; in questi ultimi si riproducono e si diffondono in tutto l’organismo provocando, quando muoiono, infiammazioni locali.

Diagnosi e clinica

Il primo segno della malattia è una modesta uveite anteriore (infiammazione oculare). Il piccolo parassita biancastro (“vermetto”), che si trova nella parte dell’occhio più vicina alla pupilla (detta “camera anteriore”), può essere individuato all’esame con lampada a fessura. Con l’andare del tempo, al persistente ingresso delle microfilarie all’interno dell’occhio, l’infiammazione intraoculare progredisce, aggravata da fenomeni di cicatrizzazione.
Il coinvolgimento del segmento posteriore dell’occhio produce una corioretinite (infiammazione della coroide e della retina), che si può manifestare in vario modo. L’ulteriore progressione della patologia porta alla comparsa di atrofia corioretinica (morte e perdita di tessuto retinico e cicatrizzazione), accumulo di pigmento, fibrosi e neovascolarizzazione (proliferazione di nuovi vasi sanguigni). Le lesioni sono generalmente simmetriche (coinvolgono entrambi gli occhi) e tendono a risparmiare il centro della retina (la macula) fino agli stadi terminali della malattia.
La diagnosi può essere fatta nei seguenti due modi:

  1. conta delle larve (microfilarie);
  2. visualizzando la larva adulta, dopo aver praticato una biopsia di un nodulo sottocutaneo oppure individuando le microfilarie all’interno dell’occhio o in altri fluidi corporei.

Terapia

L’oncocerchiasi può essere trattata con una dose annuale di ivermectina (un antiparassitario) e con vari programmi l’Oms e altri attori stanno cercando di combattere questa malattia bonificando le aree malsane e implementando il controllo dell’oncocerchiasi. Infatti, non esiste ancora un farmaco ideale per curarle e il miglior modo di trattare la patologia è quello di prevenirla. Secondo i dati dell’Oms del 2007 i disabili visivi devono la loro condizione a questa malattia in misura pari a circa lo 0,7%. Inoltre, si è sperimentato il moxidecin, un altro antiparassitario, grazie a un programma dell’Oms completato nel 2012.
La patologia è considerata una piaga in diversi Paesi dell’Africa subsahariana. Complessivamente colpisce 31 Stati africani, diversi Stati dell’America meridionale e lo Yemen (Penisola arabica).
Secondo le stime circa 25 milioni di persone ne sono colpite, mentre 123 milioni di persone vivono in aree a rischio. Circa 300 mila individui sono diventati ciechi a causa del parassita, mentre altri 800 mila sarebbero ipovedenti per la stessa ragione. Quasi il 99% delle persone infettate vive in Africa (soprattutto nelle zone rurali), mentre le rimanenti si trovano nello Yemen e in Paesi dell’America meridionale (Venezuela e Brasile). [1]
In questi ultimi, tuttavia, è molto più raro che si verifichi un contagio, sopratutto ai danni di viaggiatori occasionali. Una vittoria sull’oncocerchiasi è stata registrata con l’ivermectina (un antielmintico) in Mali e Senegal (Oms, 2009). L’Organizzazione mondiale della sanità cita uno studio internazionale pubblicato sulla rivista PLoS, a cui hanno lavorato autorità sanitarie pubbliche e universitarie di quattro Paesi (non solo Mali e Senegal, ma anche Francia e Burkina Faso). Viene consigliato di utilizzare l’ivermectina almeno una volta l’anno per 10-15 anni.
A fine settembre 2016 il Guatemala è stato dichiarato dall’OMS libero dall’oncocercosi: è il quarto Paese dell’America latina dopo Messico, Ecuador e Colombia.

Programmi Oms di cura e prevenzione

Tra il 1974 e il 2002 l’oncocerchiasi – scrive l’Oms – nell’Africa Occidentale è stata controllata ricorrendo a un Programma di Controllo dell’Oncocerchiasi (OCP), usando principalmente insetticidi spray contro le larve della mosca infettante (diffusi mediante aerei ed elicotteri). A ciò si è aggiunta, sin dal 1989, la distribuzione su ampia scala dell’ivermectina.
Il programma OCP ha guarito 40 milioni di persone dall’infezione, ha prevenuto la cecità in 600 mila persone e ha assicurato a 18 milioni di bambini una nascita senza questa malattia. Nel 1995 è stato lanciato il Programma africano di controllo dell’oncocerchiasi (APOC), con l’obiettivo d’intervenire nei Paesi dell’Africa dove l’oncocerchiasi è ancora endemica (princialmente nell’Africa centro-meridionale). Nel 2010 quasi 76 milioni di trattamenti erano stati distribuiti nei 16 Paesi coinvolti nel programma APOC.

L’OMS in azione

A metà febbraio 2014, secondo un documento dell’Oms, almeno 15 milioni di nuove persone devono essere ancora coinvolte nel programma contro l’oncocercosi (che nel frattempo è passato dalla fase di controllo all’eliminazione della malattia).
A giugno del 2015 il Messico è diventato il terzo Paese infetto al mondo (dopo la Colombia e l’Equador nei due anni precedenti) a essere ufficialmente dichiarato libero dall’oncocercosi dopo un’attività durata decenni (per quanto riguarda il Guatemala, invece, al momento in cui scriviamo sono ancora in corso verifiche).
Il 20 gennaio 2016 la trasmissione del parassita risultava tra l’altro – sempre secondo l’Oms – ancora in corso in Brasile e Venezuela.

Link utile: l’oncocerchiasi secondo l’Oms


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Pagina pubblicata il 30 giugno 2009. Ultimo aggiornamento: 19 dicembre 2016.

Ultima revisione scientifica: 31 gennaio 2014.

 

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Neuropatia ottica ischemica anteriore (Infarto della testa del nervo ottico)

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Malattie oculari

Neuropatia ottica ischemica anteriore (Infarto della testa del nervo ottico)

Cos’è?

È una condizione in cui le cellule del nervo ottico , a seguito di un mancato apporto sanguigno, muoiono; esattamente come avviene nel caso dell’infarto del miocardio, ma in questo caso si verifica a livello delle vie visive.

Come si manifesta?

Si presenta con una riduzione acuta della vista, generalmente nella parte centrale del campo visivo , nella metà superiore o quella inferiore (difetto altitudinale). In quest’ultimo caso guardando in orizzontale non si vede più il pavimento oppure non si vede più il soffitto della stanza (se si è perso il campo visivo superiore). Però, in alcuni casi, la visione centrale potrà essere mantenuta.

Come sono le lesioni?

L’esame del fondo oculare dimostra la presenza di un èdema (rigonfiamento dovuto all’accumulo di liquido a livello retinico) della papilla ottica associato a emorragie, con un tipico aspetto a fiamma (emorragie intraretiniche) ed essudati. L’evoluzione è il pallore localizzato o diffuso del nervo ottico (atrofia e subatrofia).

Quali sono le forme di ischemia?

La neuropatia ottica ischemica si può differenziare in due forme:

  1. la forma non arteritica
  2. la forma arteritica

Quali sono le cause per la forma non arteritica?

È causata da un’occlusione su base aterosclerotica associata a fattori di rischio locali o generali. Tra i fattori locali ci sono la conformazione della testa del nervo ottico (disco ottico affollato, ossia con troppi vasi sanguigni); tra i fattori di rischio generali, invece, si annoverano tutti quelli delle patologie ischemiche (tra cui l’infarto del miocardio, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, il fumo, colesterolo alto e l’iperomocistenemia, l’obesità, il poco esercizio fisico). La patologia colpisce l’altro occhio nel 25-50% dei casi entro i 5 anni.

Quali sono le cause della forma arteritica?

Tale forma fa parte di una malattia generalizzata, ossia l’ Arterite di Horton . La causa dell’occlusione è su base infiammatoria. Si può manifestare, inoltre, nel corso di altre malattie (quali l’artrite reumatoide e il LES). Può colpire un occhio oppure entrambi.

Come si esegue la diagnosi?

È importante effettuare un’accurata anamnesi (ricostruzione della storia clinica del paziente) e una visita oculistica completa, con tanto di esame del fondo oculare . Per una tempestiva diagnosi è importante la valutazione del campo visivo , mentre la fluorangiografia può essere utile per una conferma diagnostica. Infatti, con quest’ultimo esame può essere esaminata la testa del nervo ottico e, quindi, i deficit di perfusione a livello del disco ottico (insufficiente apporto sanguigno che, pertanto, rende difficile veicolare farmaci). È importante la valutazione dei valori ematochimici (emocromo, VES, PCR) che risultano alterati nella forma arteritica.

Come si cura?

La forma non arteritica, in fase acuta, può essere trattata con la somministrazione di steroidi per via orale, che servono a ridurre l’edema del disco ottico. Di notevole importanza è la prevenzione della neuropatia ischemica nell’occhio sano. In questi casi si raccomanda l’uso di antiaggreganti piastrinici e il controllo dei fattori di rischio cardiovascolari come l’ipertensione arteriosa sistemica, il diabete e le dislipidemie (variazioni e aumenti dei grassi e lipidi nel sangue). La forma arteritica viene trattata in acuto con boli (steroidi) per via endovenosa e poi per via orale, fino a scalare nel mantenimento, nella forma cronica. Per la gestione del paziente è importante la collaborazione del medico internista e del medico immunologo.

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Pagina pubblicata il 4 novembre 2009. Ultimo aggiornamento: 2 agosto 2016. 

Ultima revisione scientifica: 26 maggio 2014.

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Neurite ottica

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Neurite ottica

Cos’è?

Campo visivo di una persona colpita da neurite ottica: c'è una area scura che indica la zona di non visione.La neurite ottica è una patologia del nervo ottico che comprende quadri clinici simili a livello di segni e sintomi, ma molto diversi come eziologia. Non sempre, infatti, le cause di questa malattia oculare sono di natura infiammatoria, ma anche demielinizzante, degenerativa o tossica.

Nei pazienti ultracinquantenni si presenta spesso come neuropatia ottica ischemica, nella forma arteritica o non arteritica: queste due forme si differenziano tra loro principalmente per i valori della VES, acronimo che sta ad indicare la velocità di eritrosedimentazione ossia di sedimentazione dei globuli rossi che, nel primo caso, risultano molto più elevati.

Sia la forma arteritica che quella non arteritica sono caratterizzate da una perdita della visione repentina e, purtroppo, spesso molto invalidante. Inoltre, nella prima forma spesso possono coesistere sintomi come mal di testa, fastidio o dolore del cuoio capelluto, dolore alla masticazione o alle articolazioni, assieme a segni come la palpabilità dell’arteria temporale.

Che sintomi dà?

Una perdita rapida delle funzioni visive che può essere lieve o, più spesso, grave. I colori appaiono sbiaditi. Sono usuali dolori oculari nella forma retrobulbare, soprattutto nei movimenti di sguardo. Si riscontrano alterazioni, di solito specifiche e che aiutano nella diagnosi, del campo visivo.

Che cause ha?

La causa della neuropatia ottica ischemica è fondamentalmente di natura vascolare.

La sclerosi multipla è, invece, una delle principali cause di neurite ottica retrobulbare (NORB); spesso è uno dei primi segni evidenti della malattia, che si manifesta con dolore al movimento degli occhi e alterazioni del campo visivo. La neurite ottica può essere causata anche da alcune malattie infettive acute (per esempio dal morbillo come complicanza rara [Hirayama T, Ikeda K, Hidaka T et al., “[Unilateral Measles-Associated Retrobulbar Optic Neuritis without Encephalitis: A Case Report and Literature Review“, Case Reports in Neurology. 2010;2(3):128-132. doi:10.1159/000322143].

Quali sono i segni?

Ad una stimolazione fatta con una luce si riscontra un rallentato riflesso della pupilla (difetto pupillare relativo afferente); gli esami del campo visivo – sia manuale che computerizzato – confermeranno la presenza di aree di non percezione visiva (scotomi). L’esame PEV (potenziali evocati visivi) mostrerà alterazioni nella trasmissione del segnale lungo il nervo ottico.

Come si fa la diagnosi?

All’esame del fondo oculare il medico oculista può riscontrare la testa del nervo ottico (papilla) rigonfia associata ad emorragie circostanti; ma la papilla può essere normale nel caso in cui si tratti di una neurite ottica retrobulbare.

Necessario per la diagnosi è, comunque, l’esame del campo visivo. Per le neuriti ottiche sono utili indagini diagnostiche quali la fluorangiografia e i potenziali evocati visivi (PEV).

È importante comunque sottolineare ancora una volta che la neurite ottica può essere un sintomo iniziale di diverse condizioni patologiche. Pertanto un esame clinico-medico completo può aiutare ad escludere eventuali malattie correlate.

Gli esami ematochimici consentono di ricercare la presenza di parametri infiammatori, come la VES o la proteina C reattiva. Una velocità di eritrosedimentazione (VES) elevata può aiutare a determinare se la neurite ottica è causata dall’infiammazione delle arterie craniche (arterite temporale); inoltre, le analisi del sangue consentono di riscontrare la presenza di anticorpi anti-mielina (per indagare su malattie autoimmuni) e segni di eventuali infezioni virali e batteriche.

Chi avesse avuto un primo episodio di neurite ottica in genere verrà sottoposto a una risonanza magnetica per cercare eventuali lesioni a carico del sistema nervoso centrale. Questo test di imaging consente, infatti, di determinare se la mielina sia stata danneggiata e può aiutare ad eseguire un’eventuale diagnosi di sclerosi multipla (soprattutto nelle giovani donne, purtroppo più predisposte alla patologia), dimostrando la presenza di anomalie caratteristiche di questa patologia.

Qual è la terapia?

Nella neuropatia ottica ischemica arteritica e in quella retrobulbare si impiegano steroidi per via sistemica, inizialmente per via endovenosa. Rimane fondamentale una diagnosi precoce perché il trattamento andrebbe effettuato il prima possibile per cercare di limitare i danni. Basti pensare anche che, nella forma arteritica, caratterizzata spesso da un recupero visivo scarso, una terapia adeguata riduce fortemente il rischio anche di un episodio analogo nell’occhio sano.

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Pagina pubblicata il 1 luglio 2008. Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 2019. 

Ultima revisione scientifica: 22 novembre 2022

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Melanoma della Coroide

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Melanoma della Coroide

Tumore intraoculare più diffuso

Cos’è il melanoma?

melanoma oculare Il melanoma della coroide (tessuto vascolare tra la retina e la sclera) è il tumore maligno primitivo intraoculare più frequente nell’adulto, con un’incidenza pari a 6 casi su un milione di abitanti.

A cosa è dovuto?

L’origine della neoplasia è dovuta a diverse cause ed è necessaria l’interazione di fattori genetici ed ambientali perché si sviluppi. Sebbene non siano ancora ben conosciuti tutti i fattori di rischio, è evidente una predisposizione della razza caucasica e un’età compresa tra i 50 e i 60 anni.

Come insorgono i melanomi?

I melanomi insorgono nella maggioranza dei casi ex novo, mentre in una ridotta percentuale di casi si sviluppano a partire da un neo. Alcuni nei presentano un alto rischio di trasformazione maligna; di conseguenza richiedono un’accurata osservazione clinica ed ecografie a brevi intervalli di tempo. Quelli che mostrano una trasformazione maligna presentano una capacità di crescita evidenziabile con l’esame oftalmoscopico e con un’ecografia oculare, che consente anche di valutarne le dimensioni.

Che sintomi dà?

Il melanoma della coroide si sviluppa generalmente senza sintomi specifici; tuttavia, qualora esso sia localizzato nella fovea (zona centrale della retina) o parafoveale (in prossimità del centro retinico) può determinare una riduzione dell’acuità visiva. Altri sintomi riferiti dai pazienti sono i fosfeni – lampi di luce a volte colorati – o i deficit del campo visivo, che possono essere attribuiti a un distacco di retina.

Come si diagnostica?

Oggi il melanoma coroideale può essere diagnosticato con una precisione del 99,7% grazie alla notevole esperienza clinica che caratterizza i centri di oncologia oculare e alle moderne tecniche diagnostiche. L’esame oftalmoscopico indiretto e l’ecografia oculare sono le tecniche più importanti per poter giungere alla diagnosi di melanoma della coroide.

Quali esami si usano per diagnosticare un tumore oculare?

L’oftalmoscopia binoculare indiretta consente di apprezzare le caratteristiche del tumore, la presenza di alterazioni a carico delle strutture adiacenti eventualmente associate e consente allo specialista particolarmente addestrato ed esperto in oncologia oculare di giungere alla diagnosi di malignità nel 95% dei casi.

È tuttavia, necessario, eseguire in ogni caso un’ecografia oculare con tecnica A-B scan, al fine di determinare la natura del tumore, definirne le esatte dimensioni, valutarne il trattamento più appropriato. La fluorangiografia, al contrario, non fornisce dati dirimenti ai fini diagnostici, anche se resta essenziale nella diagnosi differenziale con l’emorragia sottoretinica e, insieme, con l’angiografia al verde di indocianina, può fornire utili indicazioni per differenziare il melanoma amelanotico da lesioni benigne ad alta vascolarizzazione (come l’emangioma della coroide).

Il nevo della coroide, l’ipertrofia dell’epitelio pigmentato retinico (EPR), le emorragie sottoretiniche, le metastasi coroideali, l’emangioma, l’osteoma ed il melanocitoma della coroide sono le condizioni di più frequente riscontro che devono essere differenziate dal melanoma coroideale. A tal fine è sufficiente eseguire un esame clinico, ecografico ed, eventualmente, angiografico.

Qual è la terapia?

Melanoma oculare distrutto dalle radiazioni in seguito a brachiterapia Oggi un trattamento di tipo conservativo è indicato nella maggior parte dei melanomi: in genere non è necessario asportare chirurgicamente l’occhio. I piccoli melanomi pigmentati possono essere trattati con la termoterapia transpupillare (TTT), metodica di recente introduzione che – attraverso un laser a diodi – determina un aumento di temperatura entro il tumore, provocandone la morte (necrosi non coagulativa). Questa tecnica può essere impiegata anche per melanomi di maggiori dimensioni o localizzati in sede juxtapapillare qualora venga associata alla radioterapia con placche episclerali (terapia sandwich).

La radioterapia con placche radioattive (brachiterapia) rappresenta attualmente il trattamento radiante più diffusamente utilizzato. La placca, precedentemente caricata con iodio 125 o rutenio 106, viene messa a contatto col bulbo oculare: le sue emissioni possono “uccidere” il tumore (viene suturata alla sclera in corrispondenza della base del tumore e lasciata in sede per il tempo necessario all’emissione della dose richiesta, in genere 4-7 giorni).

Cosa si può fare con questa tecnica?

  1. Possono essere trattati i melanomi ovunque localizzati e di spessore non superiore ai 9 mm per lo iodio ed ai 5 mm per il rutenio (che salgono a 12,5 mm e 8,5 mm rispettivamente se associate a termoterapia).
  2. Esiste una tecnica di radioterapia ancora più potente, che sfrutta protoni accelerati per colpire le cellule tumorali: fa effetto fino a 14 mm di profondità (l’adroterapia). Tale metodica, pertanto, risulta particolarmente indicata in pazienti monocoli con tumori di spessore superiore a quello consentito per il trattamento con brachiterapia o con terapia sandwich.
  3. La resezione chirurgica del melanoma della coroide tramite resezione transclerale, infine, può essere impiegata per tumori di qualsiasi spessore con un diametro basale inferiore ai 15 mm, il cui margine posteriore disti almeno 4 mm dalla fovea e 3 mm dal disco ottico.

Anche nei casi in cui le dimensioni della lesione, l’estensione extrasclerale, l’associazione a glaucoma secondario impongano un intervento demolitivo (enucleazione del bulbo oculare), le tecniche operatorie e i materiali oggi disponibili consentono di ripristinare un aspetto estetico assolutamente soddisfacente, con evidente beneficio psicologico. Un’adeguata programmazione dei controlli oftalmoscopici ed ecografici dopo il trattamento, con cadenza semestrale nei primi cinque anni e annuale nel periodo successivo, è parte integrante del programma terapeutico.

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Pagina pubblicata il 3 luglio 2008. Ultimo aggiornamento: 6 agosto 2018. 

Ultima revisione scientifica: 1 aprile 2016.

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Retinopatia ipertensiva

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Retinopatia ipertensiva

Cos’è?

 retinopatia ipertensiva La retinopatia ipertensiva è una malattia oculare che si riscontra in soggetti che presentano una pressione arteriosa elevata.  L’ipertensione arteriosa sistemica è una patologia di frequente riscontro che, se diagnosticata e curata in tempo, non provoca danni irreversibili. In caso contrario può portare a tutta una serie di problematiche a livello di vari organi, quali il cervello, il cuore, il fegato, il rene e l’occhio. La retinopatia ipertensiva in fase iniziale può risultare asintomatica e non comportare particolari disturbi visivi per il paziente, nei casi più gravi e avanzati invece, si rileva un netto peggioramento della visione perché viene  alterato il corretto funzionamento della retina a causa di un ampio spettro di alterazioni vascolari.

Da cosa è causata?

Come anticipato in precedenza, la causa di questa patologia è la pressione arteriosa troppo alta. Infatti, chi ha una pressione cronicamente oltre i valori normali, a lungo andare tende a soffrire di alterazioni dei vasi retinici ossia:

  • restringimento del lume vasale ed aumento della tortuosità del vaso stesso (si tratta di un meccanismo di compenso da parte dell’occhio per proteggere la retina);
  • vasodilatazione con conseguente stravaso di liquido nel tessuto retinico (essudati cotonosi) e, in un secondo momento, comparsa di emorragie;
  • comparsa di edema retinico, con formazione di essudati duri intorno alla fovea.

In base a tali meccanismi evolutivi, la retinopatia ipertensiva può essere suddivisa clinicamente in quattro stadi:

Stadio 1: è caratterizzato da un lieve e diffuso restringimento arteriolare con comparsa di tortuosità dei vasi retinici.

Stadio 2: comparsa di schiacciamenti artero-venosi: la vena subisce uno spostamento repentino dopo l’incrocio artero-venoso, oppure si crea un ingorgo ematico che rende la vena più grossa e tortuosa prima dell’incrocio e più sottile e lineare dopo di esso. Le arterie retiniche appaiono ristrette, rigide, rettilinee con calibro irregolare ed accentuazione del loro riflesso (definito a “filo di rame”, più tardivamente a “filo d’argento”).

Stadio 3: presenza di edema retinico, emorragie a fiamma, essudati cotonosi, che si presentano come chiazze biancastre superficiali, essudati duri, che si localizzano principalmente a livello della macula. Quando l’edema e gli essudati interessano la macula si parla di “stella maculare”, condizione associata ad una grave compromissione della vista. 

Stadio 4: comparsa di edema della testa del nervo ottico (papilla da stasi) per la concomitante presenza di ipertensione endocranica, con quadro clinico molto grave.

Quali sono i sintomi?

Nelle forme lievi non sono presenti disturbi, mentre nelle forme avanzate di retinopatia ipertensiva la visione può risultare annebbiata, le immagini apparire distorte, con calo del visus importante e comparsa di disturbi neurologici.

Come si effettua la diagnosi?

La diagnosi avviene attraverso l’esame del fondo oculare, previa instillazione di un collirio per la dilatazione delle pupille (midriasi). È possibile, in questo modo, valutare dimensione e decorso dei vasi sanguigni, eventuale presenza di emorragie, di essudati o di edema maculare. A seconda del grado di alterazione arterioso e venoso nonché della presenza di lesioni (comprese eventuali zone ischemiche) si determina lo stadio della malattia.

Un’eventuale fluorangiografia(con cui si inietta per via endovenosa una sostanza fluorescente e si eseguono delle fotografie della retina in tempi diversi)può essere utile per evidenziare alterazioni precoci dei vasi retinici e studiare l’evoluzione della patologia.retinopatia

Qual è la terapia?

La terapia si basa esclusivamente sul controllo, attraverso opportune cure, dell’ipertensione arteriosa sistemica (pressione alta). È importante, quindi, l’esame semestrale del fondo oculare dall’oculista in chi è iperteso, anche per verificare il grado di efficacia della terapia e valutare lo stadio della malattia retinica. Può accadere che si scopra di essere ipertesi soltanto dopo una visita oculistica, quando lo specialista rileva la presenza dei segni iniziali della retinopatia ipertensiva.

Prendo regolarmente un medicinale che riporta la mia pressione a valori normali, posso stare tranquillo/a?

Mediante il controllo del fondo oculare si possono evidenziare le alterazioni retiniche a carico del microcircolo, contribuendo così alla diagnosi precoce di uno stato ipertensivo latente e consentendo – con l’ausilio del cardiologo o del medico di base – un trattamento farmacologico adeguato. In questo modo si potrà formulare un giudizio sull’efficacia della terapia antipertensiva in atto. È evidente, quindi, che un controllo periodico della condizione del fondo dell’occhio potrà fornire un’informazione accurata sull’evoluzione di eventuali alterazioni retiniche causate dall’ipertensione.

La mia pressione è poco più alta della norma, come devo comportarmi?

La pressione arteriosa al di sopra della norma, in particolare quella diastolica (la minima), provoca danni ai vasi sanguigni degli occhi. Più a lungo e più è alta la pressione arteriosa, più rischia di essere grave il danno a livello retinico. È consigliato quindi, in questi casi, farsi seguire da un cardiologo o da un internista, i quali hanno le competenze più adeguate. Un’opportuna terapia farmacologica, associata a una dieta corretta (poco sale e pochi grassi), oltre a uno stile di vita meno sedentario, praticare regolarmente un’attività fisica moderata, possono portare a un miglioramento del quadro clinico.

Nota: la pressione alta degli occhi (ipertensione oculare) è soltanto marginalmente legata a quella sanguigna: difficilmente chi soffre di pressione arteriosa elevata ha valori elevati di quella oculare (o viceversa). Tuttavia recenti studi epidemiologici hanno confermato l’esistenza di una correlazione, tanto che chi soffre di pressione arteriosa alta sarebbe anche più a rischio di essere colpito da glaucoma.

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Pagina pubblicata il 31 gennaio 2013. Ultimo aggiornamento: 26 aprile 2023.  

Ultima revisione scientifica: 26 aprile 2023. 


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Malattia di Best

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Malattie oculari

Malattia di Best

Cos’è?

La malattia di Best è una patologia ereditaria della retina. Viene trasmessa in forma autosomica dominante (un genitore trasmette il difetto genetico al figlio o alla figlia).

Da cosa è causata?

La malattia è causata da una mutazione di un gene (chiamato VMD2, localizzato sul cromosoma 11q13), che nella retina regola il trasporto di determinate sostanze (acidi grassi polinsaturi) e comporta l’accumulo di un materiale di scarto biologico (lipofuscina) in uno strato chiamato epitelio pigmentato retinico.

Quali sono i sintomi?

I sintomi consistono soprattutto nella riduzione della vista generalmente in forma lieve, con una progressione lenta. I pazienti riferiscono disturbi maggiori nelle visione da vicino, a cui si possono accompagnare la distorsione dell’immagine e gli scotomi centrali (macchie nere nel campo visivo).

Come si effettua la diagnosi?

La diagnosi viene effettuata con l’esame del fondo oculare: si possono osservare caratteristiche alterazioni della macula (zona centrale della retina) che compaiono già dall’infanzia e adolescenza, con la presenza di una lesione tipica (detta vitelliforme) che, col passare degli anni, può evolvere in altri stadi associandosi alla riduzione della vista; la fluorangiografia può essere di aiuto nella diagnosi. Tuttavia, l’esame fondamentale per accertare la malattia è l’elettroculogramma (EOG) che si presenta alterato in associazione ad un elettroretinogramma (ERG) normale.

Ci sono altre malattie sistemiche associate alla malattia di Best?

No, non sono stati descritti casi di altre malattie associati alla malattia di Best.

Quali terapie sono disponibili?

Al momento non ci sono terapie efficaci nel bloccare la progressione del danno o per poter guarire dal danno precedente. Nei casi in cui l’evoluzione della lesione maculare determina l’insorgenza di neovascolarizzazioni si possono eseguire dei trattamenti laser per il controllo delle stesse. Può essere importante l’uso di ausili per ipovedenti che permettono di sfruttare al meglio il residuo visivo.

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Pagina pubblicata il 14 novembre 2007. Ultimo aggiornamento: 13 giugno 2016. 

Ultima revisione scientifica: 14 novembre 2007.

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