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Malattie oculari
Coroideremia (coroide denudata)
Cos’è?
La coroideremia (CHM) è una distrofia corioretinica che provoca una degenerazione progressiva della coroide, dell’epitelio pigmentato retinico (EPR) e dei fotorecettori. Si tratta di una malattia bilaterale, caratterizzata da lesioni inizialmente focali, localizzate nella periferia retinica, che con il progredire della malattia tendono a confluire e avanzare verso il centro, coinvolgendo progressivamente l’intera retina.
La visione centrale risulta solitamente preservata negli stadi iniziali, sebbene si osservi un notevole restringimento del campo visivo nel corso della progressione della patologia.
Chi colpisce?
La coroideremia è una malattia genetica recessiva legata al cromosoma X (X-linked recessiva), motivo per cui colpisce prevalentemente i maschi. Le donne portatrici sono generalmente asintomatiche o presentano forme lievi, ma è fondamentale identificarle, poiché esiste un rischio del:
- 50% di trasmettere la malattia ai figli maschi (che saranno affetti),
- 50% di trasmettere il gene mutato alle figlie femmine (che saranno portatrici).
La prevalenza della coroideremia è stimata in circa 1/50.000 – 1/100.000 individui. L’esordio clinico si verifica solitamente nella prima o seconda decade di vita, tuttavia la riduzione dell’acuità visiva centrale tende a manifestarsi più tardi, generalmente nell’età adulta intermedia.
Eziologia
La coroideremia è dovuta a una mutazione del gene CHM, localizzato sul cromosoma X, che codifica per la proteina REP-1 (Rab Escort Protein 1), fondamentale nei trasporti intracellulari e nei processi di prenilazione. Quando questi meccanismi vengono compromessi, si interrompono i normali percorsi di traffico intracellulare, con conseguente accumulo di prodotti tossici e attivazione di fenomeni apoptotici (morte cellulare). Questo porta a un rimodellamento cellulare con degenerazione dell’EPR e della coroide, seguita dalla perdita dei fotorecettori.
QUALI SONO I SINTOMI DELLA COROIDEREMIA?
Nelle fasi iniziali della malattia, i pazienti avvertono soprattutto difficoltà visive in condizioni di scarsa illuminazione, come al crepuscolo o di notte. Questo sintomo prende il nome di cecità notturna.
Con il passare del tempo, compare una graduale riduzione del campo visivo, accompagnata da scotomi periferici (aree cieche ai margini della vista). La visione assume così un aspetto definito ”a tunnel” o ”tubulare”, come se si guardasse attraverso un tubo o il buco di una serratura.
Altri sintomi che possono presentarsi sono: annebbiamento della visione centrale, difficoltà nel distinguere i colori, in particolare il blu, cataratta precoce (opacità del cristallino).
Nelle fasi avanzate, la patologia può portare a una condizione di ipovisione grave e/o alla cecità.
QUALI SONO I SEGNI OFTALMOSCOPICI?
All’inizio della malattia, i pazienti maschi mostrano, all’esame del fondo oculare, alterazioni dell’EPR localizzate della media periferia retinica (molto simili a quelle della retinite pigmentosa). Successivamente diventano evidenti ampie chiazze di atrofia (perdita di cellule) che tendono a estendersi verso la parte centrale della retina. Nelle fasi avanzate, si possono osservare segni più marcati, come: atrofia ottica, attenuazione della trama vascolare retinica, decorso isolato dei vasi coroidali con scomparsa della coriocapillare. Per quanto riguarda le donne portatrici, l’aspetto del fondo oculare può mostrare aree di atrofia nella periferia retinica, ma di solito l’acuità visiva, il campo visivo e l’elettroretinogramma (ERG) risultano nella norma, o mostrano alterazioni molto lievi.
COME SI DIAGNOSTICA LA COROIDEREMIA?
Per diagnosticare la coroideremia è fondamentale effettuare una visita oculistica approfondita, seguita da alcuni esami strumentali specifici che aiutano a confermare la diagnosi e a valutare l’estensione della malattia. Tra gli esami più importanti ci sono:
- Tomografia a Coerenza Ottica (OCT): consente di analizzare in dettaglio la struttura della retina. Nella coroideremia, la macula (la parte centrale della retina responsabile della visione nitida) può apparire normale per molto tempo, anche fino agli stadi avanzati della malattia.
- Fluorangiografia (FAG): è un esame che studia il flusso sanguigno nei vasi della retina. Può mostrare segni di atrofia dell’EPR e un riempimento lento e ridotto dei vasi retinici. La regione foveale, però, tende a rimanere intatta e poco fluorescente (ipofluorescente).
- Campo visivo: è un test fondamentale per monitorare l’evoluzione della malattia, soprattutto nelle fasi iniziali, in cui si osserva un restringimento progressivo della visione periferica.
- Elettroretinogramma (ERG): misura l’attività elettrica della retina in risposta alla luce. Nei pazienti con coroideremia, l’ERG risulta subnormale, con una prima compromissione della componente scotopica (visione notturna) e, nelle fasi più avanzate, anche della componente fotopica (visione diurna).
Inizialmente l’esame del fondo oculare mette in evidenza solo una fine punteggiatura legata alla depigmentazione dell’epitelio pigmentato. Successivamente si fanno evidenti delle larghe chiazze di atrofia (riduzione del numero di cellule) che, dalla media periferia retinica, avanzano sia anteriormente che posteriormente. La regione maculare risulta in genere risparmiata dal processo degenerativo.
Esiste una terapia?
Attualmente non esiste una terapia approvata per arrestare la progressione della coroideremia. È comunque raccomandata una consulenza genetica per valutare il rischio di trasmissione familiare. Sono state identificate finora molte varianti del gene CHM associate alla malattia; la delezione può estendersi da poche kilobasi fino all’intero gene, causando la perdita parziale o totale della proteina REP1. Studi in vitro e su modelli animali hanno mostrato che il ripristino della proteina REP1 può rallentare o bloccare la progressione della malattia, e questi risultati hanno portato allo sviluppo di diverse sperimentazioni.
I risultati della prima terapia genica per la coroideremia risalgono al 2014 e sono relativi ad uno studio condotto presso l’Università di Oxford. I ricercatori hanno utilizzato un vettore virale adeno-associato (AAV2) per introdurre una copia funzionante del gene CHM nelle cellule dell’epitelio pigmentato retinico (EPR) e nei fotorecettori. I risultati sono stati molto promettenti: 12 pazienti hanno completato il follow-up; in tutti è stata osservata una stabilizzazione della capacità visiva, con un miglioramento medio di 2-3 lettere e un aumento della sensibilità retinica e della fissazione. Successivamente sono stati condotti altri 3 studi sperimentali (in Germania, USA e Canada) in cui è stato utilizzato lo stesso vettore del gruppo di Oxford, arruolando 6 pazienti per centro. Anche qui si sono avuti risultati incoraggianti, ma sarà necessario proseguire gli studi affinché la terapia genica possa arrivare nella pratica clinica in modo sicuro ed efficace.
Scheda informativa a cura dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità-IAPB Italia onlus
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Ultima revisione scientifica: 9 ottobre 2025.

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