La blefarite consiste in un’infiammazione del bordo ciliare della palpebra (in greco blépharon).
Che sintomi dà?
I sintomi classici dell’infiammazione: bruciore e sensazione di calore sul bordo palpebrale. Molto frequente è anche il prurito, a causa del quale si tende a strofinare la palpebra con la mano. Quest’ultimo comportamento va però evitato, in quanto favorisce l’infiammazione, provocando, a lungo andare, microlesioni della cute palpebrale. A questa sintomatologia tipica delle forme lievi si aggiunge, nelle blefariti gravi, il gonfiore palpebrale, il dolore localizzato esacerbato dall’ammiccamento (che diventa irregolare) e, in ultimo, l’intolleranza alla luce (fotofobia).
Da cosa è provocata?
Le blefariti possono essere provocate da un’alterata secrezione delle ghiandole palpebrali di Meibomio (secrezione sebacea ricca di lipidi), da vizi refrattivi non corretti (in particolare ipermetropia e astigmatismo), malattie della pelle (come l’eczema seborroico), turbe alimentari (avitaminosi e dispepsie), patologie come il diabete o l’accumulo eccessivo di grassi nel sangue e, inoltre, da fattori allergici e ambientali (polveri, fumo). I batteri (stafilococchi, streptococchi) possono essere la causa primaria oppure complicare la blefarite stessa. Sul bordo palpebrale possono essere presenti piccole squame bianche simili a forfora, piccole croste e, nelle forme più gravi, si può arrivare alla formazione di vere e proprie ulcere.
Come si esegue la diagnosi?
La diagnosi si basa sulla presenza dei segni e sintomi palpebrali che vengono valutati durante l’esame obiettivo eseguito dall’oculista mediante la lampada a fessura (che consente una migliore osservazione grazie a una “lama” verticale di luce).
Come si cura?
Generalmente a livello locale vengono prescritti dall’oculista colliri antibiotici e antinfiammatori. Tuttavia una cura completa della blefarite non dovrebbe prescindere dal trattamento della patologia primaria che potrebbe averla determinata. Oltre a curare la blefarite bisogna, quindi, esaminare accuratamente la congiuntiva: la cornea potrebbe essere interessata da una cheratite in caso di congiuntivite infettiva. A questo proposito è bene ricordare di non usare lenti a contatto in caso di blefarite infettiva per evitare contaminazioni. Inoltre, l’alterata secrezione delle ghiandole di Meibomio rende il film lacrimale non adatto all’uso di lenti a contatto.
Può diventare cronica?
Sì, può diventarlo. Le blefariti possono presentare una evoluzione subacuta o cronica, con resistenza ai trattamenti terapeutici e spiccata tendenza alle recidive. Pertanto, considerata tale tendenza e la notevole difficoltà di guarigione, per prevenire la blefarite è necessario seguire norme generali igienico-comportamentali.
Il rispetto delle regole igieniche è fondamentale per minimizzare il rischio di ogni tipo d’infezione, compresa la blefarite. Si raccomanda quindi di lavarsi sempre accuratamente le mani, specialmente prima di toccare gli occhi (abitudine, quest’ultima, che dovrebbe però essere evitata il più possibile).
Quando un familiare o un convivente lamenta sintomi riconducibili a una potenziale blefarite o ad altra infezione oftalmica, il consiglio è quello di evitare l’uso promiscuo di oggetti (per la cura personale, non condividendo o cambiando più spesso lenzuola, indumenti o federe) affinché non si verifichi una contaminazione.
Si raccomanda, inoltre, alle donne di evitare l’utilizzo di cosmetici per gli occhi durante l’intera terapia.
È importante lo stile di vita?
Sì, lo è. In particolare è importante seguire una corretta alimentazione ricca di frutta, verdura fresca e proteine magre, come quelle del pollo e del pesce. Al contrario bisogna limitare gli zuccheri e le bevande contenenti caffeina, che potrebbero peggiorare i sintomi della blefarite.
A quali malattie può essere associata?
La blefarite può essere associata a una congiuntivite, manifestandosi quindi come blefarocongiuntivite. Si tratta di un quadro clinico caratterizzato sia da un’infiammazione della congiuntiva che dall’infiammazione del bordo palpebrale.
Blefarite cronica
Specialmente gli anziani possono andare incontro a un’infiammazione cronica del margine ciliare di entrambe le palpebre. Oltre all’arrossamento palpebrale, la blefarite cronica è caratterizzata dalla presenza di depositi simili a forfora tra le ciglia. Il prurito caratterizza quest’affezione che, in genere, viene trattata con l’uso di saponi neutri e lavaggio degli occhi 2-3 volte al giorno.
La blefarite consiste in un’infiammazione del bordo ciliare della palpebra (in greco blépharon).
Che sintomi dà?
I sintomi classici dell’infiammazione: bruciore e sensazione di calore sul bordo palpebrale. Molto frequente è anche il prurito, a causa del quale si tende a strofinare la palpebra con la mano. Quest’ultimo comportamento va però evitato, in quanto favorisce l’infiammazione, provocando, a lungo andare, microlesioni della cute palpebrale. A questa sintomatologia tipica delle forme lievi si aggiunge, nelle blefariti gravi, il gonfiore palpebrale, il dolore localizzato esacerbato dall’ammiccamento (che diventa irregolare) e, in ultimo, l’intolleranza alla luce (fotofobia).
Da cosa è provocata?
Le blefariti possono essere provocate da un’alterata secrezione delle ghiandole palpebrali di Meibomio (secrezione sebacea ricca di lipidi), da vizi refrattivi non corretti (in particolare ipermetropia e astigmatismo), malattie della pelle (come l’eczema seborroico), turbe alimentari (avitaminosi e dispepsie), patologie come il diabete o l’accumulo eccessivo di grassi nel sangue e, inoltre, da fattori allergici e ambientali (polveri, fumo). I batteri (stafilococchi, streptococchi) possono essere la causa primaria oppure complicare la blefarite stessa. Sul bordo palpebrale possono essere presenti piccole squame bianche simili a forfora, piccole croste e, nelle forme più gravi, si può arrivare alla formazione di vere e proprie ulcere.
Come si esegue la diagnosi?
La diagnosi si basa sulla presenza dei segni e sintomi palpebrali che vengono valutati durante l’esame obiettivo eseguito dall’oculista mediante la lampada a fessura (che consente una migliore osservazione grazie a una “lama” verticale di luce).
Come si cura?
Generalmente a livello locale vengono prescritti dall’oculista colliri antibiotici e antinfiammatori. Tuttavia una cura completa della blefarite non dovrebbe prescindere dal trattamento della patologia primaria che potrebbe averla determinata. Oltre a curare la blefarite bisogna, quindi, esaminare accuratamente la congiuntiva: la cornea potrebbe essere interessata da una cheratite in caso di congiuntivite infettiva. A questo proposito è bene ricordare di non usare lenti a contatto in caso di blefarite infettiva per evitare contaminazioni. Inoltre, l’alterata secrezione delle ghiandole di Meibomio rende il film lacrimale non adatto all’uso di lenti a contatto.
Può diventare cronica?
Sì, può diventarlo. Le blefariti possono presentare una evoluzione subacuta o cronica, con resistenza ai trattamenti terapeutici e spiccata tendenza alle recidive. Pertanto, considerata tale tendenza e la notevole difficoltà di guarigione, per prevenire la blefarite è necessario seguire norme generali igienico-comportamentali.
Il rispetto delle regole igieniche è fondamentale per minimizzare il rischio di ogni tipo d’infezione, compresa la blefarite. Si raccomanda quindi di lavarsi sempre accuratamente le mani, specialmente prima di toccare gli occhi (abitudine, quest’ultima, che dovrebbe però essere evitata il più possibile).
Quando un familiare o un convivente lamenta sintomi riconducibili a una potenziale blefarite o ad altra infezione oftalmica, il consiglio è quello di evitare l’uso promiscuo di oggetti (per la cura personale, non condividendo o cambiando più spesso lenzuola, indumenti o federe) affinché non si verifichi una contaminazione.
Si raccomanda, inoltre, alle donne di evitare l’utilizzo di cosmetici per gli occhi durante l’intera terapia.
È importante lo stile di vita?
Sì, lo è. In particolare è importante seguire una corretta alimentazione ricca di frutta, verdura fresca e proteine magre, come quelle del pollo e del pesce. Al contrario bisogna limitare gli zuccheri e le bevande contenenti caffeina, che potrebbero peggiorare i sintomi della blefarite.
A quali malattie può essere associata?
La blefarite può essere associata a una congiuntivite, manifestandosi quindi come blefarocongiuntivite. Si tratta di un quadro clinico caratterizzato sia da un’infiammazione della congiuntiva che dall’infiammazione del bordo palpebrale.
Blefarite cronica
Specialmente gli anziani possono andare incontro a un’infiammazione cronica del margine ciliare di entrambe le palpebre. Oltre all’arrossamento palpebrale, la blefarite cronica è caratterizzata dalla presenza di depositi simili a forfora tra le ciglia. Il prurito caratterizza quest’affezione che, in genere, viene trattata con l’uso di saponi neutri e lavaggio degli occhi 2-3 volte al giorno.
Si tratta di un laser fotodistruttivo che viene utilizzato per trattare la cataratta secondaria e il glaucoma. L’intervento è ambulatoriale e viene eseguito generalmente in anestesia locale
Cos’è l’Nd:YAG laser?
È un laser, detto a “stato solido”, che serve per “curare” alcune malattie degli occhi. La sua peculiarità consiste nel distruggere il tessuto bersaglio: per questa sua caratteristica è detto “laser fotodistruttivo”.
Quando si utilizza?
L’Nd:YAG laser viene impiegato ambulatorialmente per trattare:
la cosiddetta “ cataratta secondaria”: è una conseguenza frequente dell’intervento di cataratta , caratterizzata dalla progressiva opacizzazione della capsula che contiene la lente intraoculare artificiale (che sostituisce il cristallino, la lente naturale contenuta nel nostro occhio). La comparsa di questo appannamento determina una progressiva riduzione della vista e si può manifestare anche dopo pochi mesi dall’intervento. Utilizzando l’Nd:YAG Laser si fora la capsula posteriore divenuta opaca, creando una via di passaggio per la luce: in tal modo si può eliminare l’appannamento visivo. Questo è possibile perché, quando ci si opera di cataratta, si mantiene l’involucro esterno del cristallino naturale, una sorta di sottile membrana all’interno del quale viene poi inserita la lente artificiale;
il glaucoma ad angolo stretto: la riduzione dell’ampiezza dell’angolo irido corneale causa un incremento della pressione intraoculare. Attraverso l’Nd:YAG Laser si praticano uno o più fori sull’iride che permettono di facilitare il deflusso dell’umor acqueo e, quindi, di ridurre la pressione intraoculare;
nelle forme di glaucoma primario ad angolo aperto si può utilizzare l’Nd:YAG laser per trattare una struttura dell’occhio, chiamata trabecolato, che serve al deflusso dell’umor acqueo (SLT Selective Laser Trabeculoplasty). Questo trattamento è raccomandato solo in quelle forme di glaucoma refrattarie alla terapia medica (che non rispondono più alla terapia classica con i colliri): consiste nel colpire con diversi spot laser il trabecolato stesso, per cui il liquido contenuto nel bulbo può defluire più facilmente e la pressione all’interna dell’occhio si riduce.
Come viene eseguito il trattamento?
L’intervento è ambulatoriale. A chi si sottopone al trattamento (previa firma del consenso informato) vengono instillate gocce anestetiche nell’occhio per evitare il dolore. Successivamente l’oculista impiega una lente per osservare meglio la zona da operare e, quindi, utilizza una mira luminosa per indirizzare correttamente il laser sulle strutture che devono essere forate. Durante il trattamento si può avvertire un leggero fastidio all’occhio. Al termine viene generalmente instillato un collirio antinfiammatorio. Sono necessari ulteriori controlli medico-oculistici nei giorni successivi all’operazione.
Quali precauzioni bisogna prendere prima e dopo il trattamento?
Il giorno stesso e nei giorni successivi (il cui numero varia a seconda dalla malattia) è importante non sottoporsi a compiti faticosi. Le terapie che vengono prescritte dopo l’intervento sono a base di colliri antinfiammatori e ipotonizzanti (da instillare per sette-dieci giorni dopo il laser, riducono la pressione oculare).
Quali possono essere gli effetti collaterali?
L’effetto collaterale più frequente, ma anche meno grave, è l’arrossamento dell’occhio causato dalla lente che il medico oculista ha utilizzato durante il trattamento (facendola entrare in contatto con la superficie oculare); questo problema può comunque risolversi spontaneamente nell’arco di pochi giorni.
Durante il trattamento si possono verificare dei lievi sanguinamenti, che però in genere si risolvono nell’arco di pochi minuti.
Una complicanza possibile è, inoltre, la comparsa di rotture periferiche della retina a seguito del trattamento laser per l’opacizzazione (secondaria) del cristallino.
Rara evenienza è, infine, la formazione di un edema maculare, che di solito si risolve spontaneamente.
Il melanoma della coroide (tessuto vascolare tra la retina e la sclera) è il tumore maligno primitivo intraoculare più frequente nell’adulto, con un’incidenza pari a 6 casi su un milione di abitanti.
A cosa è dovuto?
L’origine della neoplasia è dovuta a diverse cause ed è necessaria l’interazione di fattori genetici ed ambientali perché si sviluppi. Sebbene non siano ancora ben conosciuti tutti i fattori di rischio, è evidente una predisposizione della razza caucasica e un’età compresa tra i 50 e i 60 anni.
Come insorgono i melanomi?
I melanomi insorgono nella maggioranza dei casi ex novo, mentre in una ridotta percentuale di casi si sviluppano a partire da un neo. Alcuni nei presentano un alto rischio di trasformazione maligna; di conseguenza richiedono un’accurata osservazione clinica ed ecografie a brevi intervalli di tempo. Quelli che mostrano una trasformazione maligna presentano una capacità di crescita evidenziabile con l’esame oftalmoscopico e con un’ecografia oculare, che consente anche di valutarne le dimensioni.
Che sintomi dà?
Il melanoma della coroide si sviluppa generalmente senza sintomi specifici; tuttavia, qualora esso sia localizzato nella fovea (zona centrale della retina) o parafoveale (in prossimità del centro retinico) può determinare una riduzione dell’acuità visiva. Altri sintomi riferiti dai pazienti sono i fosfeni – lampi di luce a volte colorati – o i deficit del campo visivo, che possono essere attribuiti a un distacco di retina.
Come si diagnostica?
Oggi il melanoma coroideale può essere diagnosticato con una precisione del 99,7% grazie alla notevole esperienza clinica che caratterizza i centri di oncologia oculare e alle moderne tecniche diagnostiche. L’esame oftalmoscopico indiretto e l’ecografia oculare sono le tecniche più importanti per poter giungere alla diagnosi di melanoma della coroide.
Quali esami si usano per diagnosticare un tumore oculare?
L’oftalmoscopia binoculare indiretta consente di apprezzare le caratteristiche del tumore, la presenza di alterazioni a carico delle strutture adiacenti eventualmente associate e consente allo specialista particolarmente addestrato ed esperto in oncologia oculare di giungere alla diagnosi di malignità nel 95% dei casi.
È tuttavia, necessario, eseguire in ogni caso un’ecografia oculare con tecnica A-B scan, al fine di determinare la natura del tumore, definirne le esatte dimensioni, valutarne il trattamento più appropriato. La fluorangiografia, al contrario, non fornisce dati dirimenti ai fini diagnostici, anche se resta essenziale nella diagnosi differenziale con l’emorragia sottoretinica e, insieme, con l’angiografia al verde di indocianina, può fornire utili indicazioni per differenziare il melanoma amelanotico da lesioni benigne ad alta vascolarizzazione (come l’emangioma della coroide).
Il nevo della coroide, l’ipertrofia dell’epitelio pigmentato retinico (EPR), le emorragie sottoretiniche, le metastasi coroideali, l’emangioma, l’osteoma ed il melanocitoma della coroide sono le condizioni di più frequente riscontro che devono essere differenziate dal melanoma coroideale. A tal fine è sufficiente eseguire un esame clinico, ecografico ed, eventualmente, angiografico.
Qual è la terapia?
Oggi un trattamento di tipo conservativo è indicato nella maggior parte dei melanomi: in genere non è necessario asportare chirurgicamente l’occhio. I piccoli melanomi pigmentati possono essere trattati con la termoterapia transpupillare (TTT), metodica di recente introduzione che – attraverso un laser a diodi – determina un aumento di temperatura entro il tumore, provocandone la morte (necrosi non coagulativa). Questa tecnica può essere impiegata anche per melanomi di maggiori dimensioni o localizzati in sede juxtapapillare qualora venga associata alla radioterapia con placche episclerali (terapia sandwich).
La radioterapia con placche radioattive (brachiterapia) rappresenta attualmente il trattamento radiante più diffusamente utilizzato. La placca, precedentemente caricata con iodio 125 o rutenio 106, viene messa a contatto col bulbo oculare: le sue emissioni possono “uccidere” il tumore (viene suturata alla sclera in corrispondenza della base del tumore e lasciata in sede per il tempo necessario all’emissione della dose richiesta, in genere 4-7 giorni).
Cosa si può fare con questa tecnica?
Possono essere trattati i melanomi ovunque localizzati e di spessore non superiore ai 9 mm per lo iodio ed ai 5 mm per il rutenio (che salgono a 12,5 mm e 8,5 mm rispettivamente se associate a termoterapia).
Esiste una tecnica di radioterapia ancora più potente, che sfrutta protoni accelerati per colpire le cellule tumorali: fa effetto fino a 14 mm di profondità (l’adroterapia). Tale metodica, pertanto, risulta particolarmente indicata in pazienti monocoli con tumori di spessore superiore a quello consentito per il trattamento con brachiterapia o con terapia sandwich.
La resezione chirurgica del melanoma della coroide tramite resezione transclerale, infine, può essere impiegata per tumori di qualsiasi spessore con un diametro basale inferiore ai 15 mm, il cui margine posteriore disti almeno 4 mm dalla fovea e 3 mm dal disco ottico.
Anche nei casi in cui le dimensioni della lesione, l’estensione extrasclerale, l’associazione a glaucoma secondario impongano un intervento demolitivo (enucleazione del bulbo oculare), le tecniche operatorie e i materiali oggi disponibili consentono di ripristinare un aspetto estetico assolutamente soddisfacente, con evidente beneficio psicologico. Un’adeguata programmazione dei controlli oftalmoscopici ed ecografici dopo il trattamento, con cadenza semestrale nei primi cinque anni e annuale nel periodo successivo, è parte integrante del programma terapeutico.
La neurite ottica è una patologia del nervo ottico che comprende quadri clinici simili a livello di segni e sintomi, ma molto diversi come eziologia. Non sempre, infatti, le cause di questa malattia oculare sono di natura infiammatoria, ma anche demielinizzante, degenerativa o tossica.
Nei pazienti ultracinquantenni si presenta spesso come neuropatia ottica ischemica, nella forma arteritica o non arteritica: queste due forme si differenziano tra loro principalmente per i valori della VES [[acronimo che sta ad indicare la velocità di eritrosedimentazione ossia di sedimentazione dei globuli rossi]] che, nel primo caso, risultano molto più elevati.
Sia la forma arteritica che quella non arteritica sono caratterizzate da una perdita della visione repentina e, purtroppo, spesso molto invalidante. Inoltre, nella prima forma spesso possono coesistere sintomi come mal di testa, fastidio o dolore del cuoio capelluto, dolore alla masticazione o alle articolazioni, assieme a segni come la palpabilità dell’arteria temporale.
Che sintomi dà?
Una perdita rapida delle funzioni visive che può essere lieve o, più spesso, grave. I colori appaiono sbiaditi. Sono usuali dolori oculari nella forma retrobulbare, soprattutto nei movimenti di sguardo. Si riscontrano alterazioni, di solito specifiche e che aiutano nella diagnosi, del campo visivo.
Che cause ha?
La causa della neuropatia ottica ischemica è fondamentalmente di natura vascolare.
Ad una stimolazione fatta con una luce si riscontra un rallentato riflesso della pupilla (difetto pupillare relativo afferente); gli esami del campo visivo – sia manuale che computerizzato – confermeranno la presenza di aree di non percezione visiva (scotomi). L’esame PEV (potenziali evocati visivi) mostrerà alterazioni nella trasmissione del segnale lungo il nervo ottico.
Come si fa la diagnosi?
All’esame del fondo oculare il medico oculista può riscontrare la testa del nervo ottico (papilla) rigonfia associata ad emorragie circostanti; ma la papilla può essere normale nel caso in cui si tratti di una neurite ottica retrobulbare.
Necessario per la diagnosi è, comunque, l’esame del campo visivo. Per le neuriti ottiche sono utili indagini diagnostiche quali la fluorangiografia e i potenziali evocati visivi (PEV).
È importante comunque sottolineare ancora una volta che la neurite ottica può essere un sintomo iniziale di diverse condizioni patologiche. Pertanto un esame clinico-medico completo può aiutare ad escludere eventuali malattie correlate.
Gli esami ematochimici consentono di ricercare la presenza di parametri infiammatori, come la VES o la proteina C reattiva. Una velocità di eritrosedimentazione (VES) elevata può aiutare a determinare se la neurite ottica è causata dall’infiammazione delle arterie craniche (arterite temporale); inoltre, le analisi del sangue consentono di riscontrare la presenza di anticorpi anti-mielina (per indagare su malattie autoimmuni) e segni di eventuali infezioni virali e batteriche.
Chi avesse avuto un primo episodio di neurite ottica in genere verrà sottoposto a una risonanza magnetica per cercare eventuali lesioni a carico del sistema nervoso centrale. Questo test di imaging consente, infatti, di determinare se la mielina sia stata danneggiata e può aiutare ad eseguire un’eventuale diagnosi di sclerosi multipla (soprattutto nelle giovani donne, purtroppo più predisposte alla patologia), dimostrando la presenza di anomalie caratteristiche di questa patologia.
Qual è la terapia?
Nella neuropatia ottica ischemica arteritica e in quella retrobulbare si impiegano steroidi per via sistemica, inizialmente per via endovenosa. Rimane fondamentale una diagnosi precoce perché il trattamento andrebbe effettuato il prima possibile per cercare di limitare i danni. Basti pensare anche che, nella forma arteritica, caratterizzata spesso da un recupero visivo scarso, una terapia adeguata riduce fortemente il rischio anche di un episodio analogo nell’occhio sano.
Si tratta di una malattia oculare che consiste in una crescita anomala della congiuntiva, che arriva a coprire la superficie esterna e trasparente dell’occhio che si trova davanti all’iride (cornea). Si potrebbe considerare una sorta di “callo” oculare morbido. Questa protuberanza si può estendere fino a coprire la cornea; quest’ultima, in tale condizione, diventerà biancastra e ricca di vasi, con una superficie non regolare. Lo pterigio si accresce lentamente e progressivamente: è come se fosse una sorta di “panno“ organico.
Qual è la causa?
Per quanto è noto, la causa più comune è l’esposizione prolungata ad agenti atmosferici, in particolare al sole e al vento. Per questa caratteristica è una malattia che colpisce specialmente gli alpinisti e i marinai.
Quali sono i sintomi?
Lo pterigio può essere privo di sintomi specifici; ma, in caso d’infiammazione, si presentano frequentemente arrossamento, bruciore, lacrimazione eccessiva e la sensazione di avere un corpo estraneo nell’occhio. Lo pterigio, se si accresce, può far insorgere un astigmatismo: la sua presenza deforma la cornea a causa della trazione esercitata dalla congiuntiva. Nei casi più avanzati, quando la testa dello pterigio arriva nella zona ottica, si verifica una riduzione del visus (perché copre a pupilla).
Quali sono i segni?
È possibile vedere anche ad occhio nudo, oltre che con la lampada a fessura, la presenza del tessuto congiuntivale sulla superficie oculare. Si presenta come un triangolo, con l’apice rivolto verso il centro della cornea. Con la lampada a fessura si può constatare l’abbondanza di vasi. In condizioni d’infiammazione il diametro vascolare è maggiore.
Qual è la terapia?
La terapia è chirurgica: non esistono altre modalità di cura per lo pterigio. Si tratta di un intervento semplice, che si effettua in anestesia locale (con chirurgia ambulatoriale). È indicato soprattutto nei seguenti casi: astigmatismi non correggibili, occlusione della zona ottica, infiammazioni ricorrenti non controllabili con la terapia locale e, in ultimo, per motivi estetici. L’intervento spesso recidiva: lo pterigio può riformarsi. Non è, però, controllabile con lubrificanti oculari né con colliri antinfiammatori locali. Fondamentale è la prevenzione dello pterigio per chi si espone ai raggi ultravioletti. L’utilizzo di occhiali da sole a norma di legge, infatti, oltre a prevenirne la comparsa, protegge anche le strutture oculari dai potenziali danni delle radiazioni UV (in particolare la retina e il cristallino).
È una malattia della retina che si trasmette geneticamente (è ereditaria in una modalità detta “autosomica recessiva” perché non viene trasmessa in presenza di un gene analogo ma con caratteri dominanti). I bambini affetti da questa malattia in genere presentano sintomi sin dalla nascita. Colpisce tre bambini ogni 100.000.
Però può colpire anche da adulti: tra i 18 e i 30 anni può verificarsi una perdita della visione centrale improvvisa e indolore. Interessa entrambi gli occhi simultaneamente o sequenzialmente con perdita della vista nel secondo occhio dopo alcune settimane-mesi. La perdita della vista in genere si manifesta in maniera subacuta (nell’arco di diverse settimane), per poi stabilizzarsi. Tuttavia il più delle volte lo scotoma centrale (zona di non visione) continua a espandersi nell’arco degli anni, generando una cecità più importante. [Fonte: [Orpha.net]]
Che cause ha?
Sono state individuate almeno 19 mutazioni genetiche associate all’amaurosi congenita di Leber. Il loro effetto è una progressiva degenerazione dei fotorecettori della retina (coni e bastoncelli) e l’alterazione di altre strutture retiniche (tra cui l’epitelio pigmentato). La differenza, rispetto ad altre malattie ereditarie della retina, è che in questo caso la riduzione grave della vista è presente già al momento della nascita, probabilmente perché la degenerazione ha già inizio nell’utero a livello dei mitocondri.
Quali sono i sintomi e i segni?
La malattia causa una grave riduzione della vista associata a fastidio alla luce (fotofobia). I bambini molto piccoli non sono in grado di riferire i sintomi, ma si può notare come abbiano difficoltà a muoversi negli ambienti e tendano a stropicciare gli occhi con le mani; questi atteggiamenti devono far sospettare delle difficoltà visive e richiedono una visita oculistica.
Gran parte delle persone affette dalla Leber soffrono anche di nistagmo (incapacità di fissazione a causa di un movimento irregolare involontario degli occhi). La visita oculistica nei primi anni di vita può non rivelare alterazioni del fondo oculare; si è, infatti, visto che solo dopo i primi 3 anni la maggior parte dei malati presentano delle alterazioni della retina. La diagnosi della malattia generalmente si fa con l’elettroretinogramma (ERG); tuttavia nella maggior parte dei casi non compare un tracciato rilevabile. Esistono anche esami genetici specifici.
Esiste una terapia?
Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non esiste una terapia clinicamente riconosciuta e accreditata. Tuttavia sono stati condotti esperimenti basati sulla terapia genica, che inizialmente hanno avuto risultati molto incoraggianti. Ad esempio, presso l’Università di Pennsylvania un bambino ha recuperato parzialmente la vista in seguito a iniezioni del gene sano sotto la retina (approfondisci) e complessivamente sei persone su dodici non sono state, in seguito alle iniezioni, più considerate cieche legali; ma in altri casi quest’approccio non ha avuto buon esito e, inoltre, gli effetti della terapia genica non paiono permanere nel lungo periodo [Leggi: “[Amaurosi congenita di Leber, ridimensionata la terapia genica“]].
Il 19/12/2017 l’FDA ha approvato il primo trattamento farmacologico a livello genetico (terapia genica). Comunque il campo d’applicazione della terapia genica è estremamente limitato.
A quali malattie può essere associata?
Il cheratocono e la cataratta possono essere associate alla Leber. In alcune persone si è anche notato un ritardo mentale che, tuttavia, potrebbe essere causato dalla deprivazione sensoriale.
A cosa deve il suo nome?
È stata descritta per la prima volta nel 1869 dall’oftalmologo tedesco Theodor Leber, che riportò dei casi di bambini di età inferiore ad un anno con grave riduzione della vista, nistagmo e alterazione dei riflessi pupillari.
È un’infiammazione della congiuntiva, la membrana trasparente che ricopre la parte bianca dell’occhio (la sclera) e la superficie interna delle palpebre. È una delle malattie oculari più comuni. Può manifestarsi in forma acuta o cronica.
Quali cause ha?
Le cause della congiuntivite possono essere varie, ma le più frequenti sono le seguenti:
Lacrimazione eccessiva, bruciore, sensazione di sabbia negli occhi (sensazione di corpo estraneo), secrezione (gli occhi tendono ad “appiccicarsi”) e fotofobia.
Quali sono i segni della congiuntivite?
Occhi rossi, gonfiore più o meno accentuato della congiuntiva e delle palpebre, piccole emorragie congiuntivali bulbari o tarsali (in particolar modo nelle forme virali).
Qual è la terapia?
La terapia varia a seconda del tipo di congiuntivite. Generalmente si ricorre a colliri (terapie topiche) e, più raramente, a medicinali assunti per bocca (via sistemica).
In caso di congiuntivite batterica la terapia è a base di colliri antibiotici; nel caso, invece, di congiuntivite allergica si ricorre a colliri antistaminici e cortisonici, che possono essere associati all’utilizzo di lacrime artificiali e, talvolta, agli antistaminici per bocca. È importante, comunque, che l’oculista formuli una diagnosi esatta.
Quali forme di congiuntivite infettiva esistono?
La congiuntivite batterica è la forma più comune, di cui esistono quattro tipologie principali: la congiuntivite batterica catarrale, quella purulenta, la forma membranosa e quella pseudomembranosa. Esamiamole più nel dettaglio.
Congiuntivite catarrale: è l’unico tipo di congiuntivite in cui si verifica abbondante produzione di muco. È molto contagiosa, talora assume carattere epidemico, spesso coinvolge prima un occhio e poi l’altro. Dà senso di corpo estraneo e fotofobia molto marcata. È caratterizzata da un arrossamento prima della congiuntiva tarsale poi di quella bulbare, che diviene edematosa e può presentare emorragie (di tipo petecchiale). [[I batteri più frequentemente responsabili sono il Diplococcus pneumoniae e l’Haemophilus aegyptius.]]
Congiuntivite purulenta: è un processo infiammatorio acuto, di notevole gravità, caratterizzato da irritazione, edema palpebrale importante, occhi rossi e abbondante secrezione purulenta. È possibile anche un coinvolgimento della cornea e l’ingrossamento dei linfonodi in prossimità dell’orecchio. Il batterio comunemente responsabile di questo tipo di congiuntivite è la Neisseria gonorrhoeae.
Congiuntivite membranosa: è una forma di congiuntivite grave ma rara, caratterizzata dalla presenza delle cosiddette membrane [[secrezioni addensate che formano un sottile strato translucente di color bianco grigiastro, costituito da un trasudato ricco di proteine e di fibrina fuoriuscito dai vasi congiuntivali danneggiati, coagulato sulla superficie congiuntivale]]. Queste ultime si staccano con difficoltà, causando il sanguinamento della congiuntiva una volte rimosse. In alcuni casi la patologia si può complicare in una cheratocongiuntivite batterica in cui si ha il coinvolgimento anche della cornea. Tale forma di congiuntivite va sempre distinta da cheratocongiuntiviti da adenovirus, Streptococco beta-emolitico, congiuntiviti gonococciche, da Candida o ustioni chimiche.
Congiuntivite pseudomembranosa: in questo caso la congiuntiva tarsale è ricoperta da una membrana di fibrina sottile che si stacca facilmente dalla mucosa sottostante che appare iperemica, talora sanguinante, ma sostanzialmente integra.
La congiuntivite virale è causata principalmente dagli adenovirus o dagli herpesvirus. Dal punto di vista clinico i virus provocano con maggiore frequenza congiuntiviti di tipo acuto, caratterizzate da iperemia, gonfiore e ipetrofia follicolare. Inoltre, la forma virale della congiuntivite può essere caratterizzata da lieve febbre, tosse, mal di gola e rigonfiamento delle ghiandole linfatiche (ai lati del collo). La secrezione è di tipo sieroso (fluido) e non diviene mai di tipo purulento a meno che non si sovrapponga un’infezione batterica. Nelle congiuntiviti virali il coinvolgimento della cornea è più frequente rispetto a quelle batteriche.
È fondamentale l’igiene accurata delle mani; occorre, inoltre, cambiare frequentemente la federa del cuscino e gli asciugamani, evitando al contempo contatti ravvicinati con altre persone (in modo da non contagiare l’infezione). Bisogna infatti tenere presente che il rischio di trasmetterla è molto elevato (come avviene nel caso del comune raffreddore o dell’influenza).
Quali forme esistono di congiuntivite allergica ?
Le forme allergiche possono essere di due tipi: stagionali o croniche. Nel primo caso occorre agire preventivamente (prima che l’allergia si presenti) ed è importante recarsi dal proprio oculista, in modo che appronti per tempo una profilassi per ridurre i sintomi nella fase acuta della malattia; può essere anche opportuno consultare un allergologo, che potrebbe prescrivere una terapia desensibilizzante specifica (il cosiddetto “vaccino”).
Ci sono però forme di congiuntivite allergica i cui sintomi sono localizzati solo nell’occhio, per cui è difficile scoprire l’agente che causa la malattia; in questo caso persino i test allergometrici cutanei potrebbero dare esito negativo. Inoltre esistono al giorno d’oggi anche speciali test del sangue (basati su un prelievo) che consentono di sapere a cosa si è allergici (pollini, acari della polvere, ecc.).
La congiuntivite allergica colpisce indicativamente il dieci per cento della popolazione mondiale. E’ stata, tra l’altro, ipotizzata – in particolare nei bambini – una correlazione tra questa patologia e l’elevata concentrazione di particolato in città (soprattutto PM2,5 e PM10); tuttavia, in questo caso si è preferito classificarla come “congiuntivite di origine ignota”.
Cos’è la congiuntivite attinica?
Si tratta di una forma provocata dai raggi solari o da altre forme di radiazione. Per evitare di contrarla è, quindi, importante utilizzare occhiali con filtri per i raggi ultravioletti. La congiuntivite attinica è più frequente al mare, sulla neve e dopo l’esposizione a lampade abbronzanti: per questa ragione in tutti questi casi è fondamentale proteggere gli occhi adeguatamente con occhiali scuri a norma di legge o apposite mascherine. In caso di congiuntivite bisogna sempre evitare di andare al mare o in piscina (soprattutto nelle forme acute).
Si possono usare le lenti a contatto se si ha una congiuntivite?
In caso di congiuntivite non si devono usare le lenti a contatto, almeno fino a quando non si è guariti completamente. Nel caso in cui si fosse affetti da congiuntivite infettiva è fondamentale buttare le vecchie lenti, il contenitore che si è utilizzato e il relativo liquido di conservazione (oltre a cambiare federe ed asciugamani). Nel caso in cui non lo si facesse, vi sarebbe infatti il fondato rischio di infettarsi nuovamente.
Leggi anche: Riconoscere le allergie oculari; Congiuntivite virale causata da una proteina
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