Retinoblastoma

Foto: retinoblastoma

Cos’è?

Foto: retinoblastoma Il retinoblastoma è il tumore maligno oculare più frequente in età pediatrica. Statisticamente colpisce annualmente la retina di un bambino ogni ventimila nati vivi; può svilupparsi sia ad un solo occhio che ad entrambi. I primi segni e sintomi sono riscontrati in bambini di età inferiore ai 3 anni. Nel 40% dei casi ha un’origine ereditaria.

Da cosa è causato?

Da una mutazione del gene Retinoblastoma (RB), che comporta la proliferazione incontrollata di cellule e lo sviluppo del tumore all’interno dell’occhio. La mutazione può essere trasmessa per via ereditaria o insorgere spontaneamente (mutazione sporadica).

Quali sono i sintomi?

Purtroppo è in genere privo di sintomi, per cui spesso viene diagnosticato tardivamente. Il segno più frequente è la leucocoria ovvero un riflesso bianco nella pupilla simile a una piccola macchia dovuto alla massa tumorale che si sviluppa all’interno della camera vitrea. Frequente è anche lo strabismo (la deviazione di uno o entrambi gli occhi verso l’interno o verso l’esterno).

Come si effettua la diagnosi?

Inizialmente attraverso l’esame del fondo oculare. In seconda battuta è fondamentale che i bambini siano sottoposti ad ecografia oculare; talvolta, nei centri ad alta specializzazione vengono sottoposti anche a fluorangiografia. È importante sempre che gli esami siano eseguiti in tutti e due gli occhi, in quanto le forme inizialmente unilaterali possono poi coinvolgere anche l’altro occhio. Il bambino deve essere sottoposto, se possibile, a TAC e Risonanza Magnetica per valutare il coinvolgimento del nervo ottico e/o la presenza di eventuali metastasi.

Quali sono le terapie disponibili?

Attualmente esistono dei protocolli terapeutici stabiliti dalla comunità scientifica che impongono determinati trattamenti a seconda dello stadio di malattia. I trattamenti locali includono: laser fotocoagulazione, crioterapia, termoterapia transpupillare e brachiterapia (applicazione di placche radioattive). A questi trattamenti viene associata attualmente una chemioterapia per via sistemica. Negli ultimi tempi si sta affermando l’utilizzo di chemioterapia per via arteriosa, attraverso l’arteria oftalmica. Purtroppo nelle forme più avanzate di malattia è necessario rimuovere chirurgicamente il bulbo oculare malato.

Con che frequenza bisogna fare visitare i malati?

I bambini affetti da retinoblastoma devono essere seguiti con controlli in tempi molto ravvicinati per via della velocità di progressione della malattia e, anche dopo essere stati curati, devono essere sottoposti a controlli semestrali per i primi 5 anni dalla fine della terapia.

Approfondisci

Retinopatia del prematuro (ROP)

Retina colpita da ROP

Cos’è?

Retina colpita da ROP La retinopatia del prematuro (ROP) o retinopatia del pretermine, in passato chiamata “fibroplasia retrolentale”, è una malattia vascolare della retina che si manifesta in neonati prematuri e si presenta, in genere, in tutti e due gli occhi, anche se può avere gradi diversi.

Da cosa è causata?

È provocata dalla formazione di nuovi vasi sanguigni (neovascolarizzazioni) nella periferia retinica conseguenti alla prematurità e al basso peso corporeo alla nascita. In particolare l’ossigenoterapia a cui sono sottoposti i prematuri può determinare la comparsa della malattia. Anche eventuali crisi di apnea, infezioni, trasfusioni e persistenza del dotto di Botallo aumentano il rischio di contrarla. Il peso alla nascita è, comunque, sempre il fattore di rischio più importante: si è visto che i nati con peso inferiore a 1250 grammi hanno un rischio elevato di sviluppare una forma medio-grave di retinopatia del prematuro.

Quali sono i sintomi?

Il neonato non è in grado, ovviamente, di riferire alcun sintomo. L’unico segno di malattia può essere la presenza di un riflesso bianco (leucocoria) che, tuttavia, si può osservare solo nelle fasi più avanzate e gravi. Per questo è fondamentale che tutti i nati prematuri siano sottoposti a visite frequenti (anche settimanali) del fondo oculare durante le prime settimane di vita, in modo da poter diagnosticare il prima possibile eventuali segni della patologia; nel caso in cui vengano riscontrati è raccomandabile valutare giorno per giorno l’evoluzione del quadro clinico. L’evoluzione clinica è rapida e può portare a un distacco di retina totale, con conseguente cecità.

Come si effettua la diagnosi?

Attraverso l’esame del fondo oculare. La malattia presenta diversi stadi; purtroppo negli stadi più avanzati si ha un recupero scarso, mentre per le forme iniziali è importantissimo che il controllo sia frequente e venga eseguito da oculisti specializzati. Questo perché anche impercettibili alterazioni delle periferia retinica possono evolvere nel giro di pochi giorni in quadri più gravi.

Che terapie sono disponibili?

Attualmente esistono dei protocolli terapeutici stabiliti dalla comunità scientifica che prevedono determinati trattamenti a seconda dello stadio di malattia. Negli stadi iniziali si esegue un criotrattamento della retina o un suo trattamento laser: “bruciando” la retina periferica si evita che stimoli la formazione dei nuovi vasi dannosi. Quando si manifestano gli ultimi stadi della malattia è necessario intervenire chirurgicamente con vitrectomia o chirurgia del distacco di retina (piombaggio sclerale).

Leggi anche: ROP, il successo col trattamento laser precoce Nuovi orizzonti per i nati prematuri ROP, trattamento precoce nelle forma grave

Malattia di Stargardt (maculopatia di Stargardt)

Fondo oculare di malato di Stargardt

Cos’è?

Fondo oculare di malato di Stargardt

La malattia (o maculopatia) di Stargardt è una patologia ereditaria della retina che si manifesta generalmente prima dei vent’anni. Il più delle volte viene trasmessa in forma autosomica recessiva (entrambi i genitori presentano il difetto genetico [[pur potendo essere portatori sani]]), ma sono stati descritti anche casi di forme autosomiche dominanti (un solo genitore trasmette il difetto del DNA).

Da cosa è causata?

La malattia è provocata da una mutazione di un gene (ABCA4), che comporta l’accumulo di materiale di scarto (simile alla lipofuscina) nella retina (in uno strato esterno chiamato epitelio pigmentato). Questo materiale è originato dalla degradazione di sostanze presenti nei coni e nei bastoncelli (fotorecettori retinici).

Quali sono i suoi sintomi?

Consistono soprattutto nella riduzione della visione centrale (spesso in forma grave) che può iniziare durante l’adolescenza o anche nell’infanzia. Inoltre, chi ne è affetto può lamentare disturbi nella percezione dei colori (discromatopsia), scotomi centrali (macchie nere nel campo visivo) e fotofobia (intolleranza alla luce).

Come si effettua la diagnosi?

La diagnosi viene effettuata con l’esame del fondo oculare: si possono osservare caratteristiche alterazioni della macula (zona centrale della retina); tuttavia ciò deve essere confermato dalla fluorangiografia. Al contrario, gli esami elettrofunzionali (ERG, EOG, PEV) non sono in questo caso importanti per la diagnosi, in quanto non presentano alterazioni caratteristiche.

Quante persone colpisce la malattia?

Indicativamente una persona su diecimila. Se entrambi i genitori sono portatori sani della patologia la probabilità che un figlio si ammali è del 25% (una probabilità su quattro).

Ci sono malattie sistemiche associate alla Stargardt?

No, non sono stati descritti casi di altre malattie sistemiche associate.

Che terapie sono disponibili?

Al momento non ci sono terapie efficaci nel bloccare la progressione della malattia o per poter guarire dal danno già esistente (alcuni scienziati stanno però tentando di usare sperimentalmente cellule staminali per rallentare la degenerazione retinica). Tuttavia, è di grande aiuto l’utilizzo di ausili per ipovedenti che permettono di sfruttare al meglio ciò che resta della vista (residuo visivo). Anche la riabilitazione visiva consente di dare risultati soddisfacenti, con eventuali sedute di fotostimolazione e un supporto psicologico.

Malattia di Best

Cos’è?

La malattia di Best è una patologia ereditaria della retina. Viene trasmessa in forma autosomica dominante (un genitore trasmette il difetto genetico al figlio o alla figlia).

Da cosa è causata?

La malattia è causata da una mutazione di un gene (chiamato VMD2, localizzato sul cromosoma 11q13), che nella retina regola il trasporto di determinate sostanze (acidi grassi polinsaturi) e comporta l’accumulo di un materiale di scarto biologico (lipofuscina) in uno strato chiamato epitelio pigmentato retinico.

Quali sono i sintomi?

I sintomi consistono soprattutto nella riduzione della vista generalmente in forma lieve, con una progressione lenta. I pazienti riferiscono disturbi maggiori nelle visione da vicino, a cui si possono accompagnare la distorsione dell’immagine e gli scotomi centrali (macchie nere nel campo visivo).

Come si effettua la diagnosi?

La diagnosi viene effettuata con l’esame del fondo oculare: si possono osservare caratteristiche alterazioni della macula (zona centrale della retina) che compaiono già dall’infanzia e adolescenza, con la presenza di una lesione tipica (detta vitelliforme) che, col passare degli anni, può evolvere in altri stadi associandosi alla riduzione della vista; la fluorangiografia può essere di aiuto nella diagnosi. Tuttavia, l’esame fondamentale per accertare la malattia è l’elettroculogramma (EOG) che si presenta alterato in associazione ad un elettroretinogramma (ERG) normale.

Ci sono altre malattie sistemiche associate alla malattia di Best?

No, non sono stati descritti casi di altre malattie associati alla malattia di Best.

Quali terapie sono disponibili?

Al momento non ci sono terapie efficaci nel bloccare la progressione del danno o per poter guarire dal danno precedente. Nei casi in cui l’evoluzione della lesione maculare determina l’insorgenza di neovascolarizzazioni si possono eseguire dei trattamenti laser per il controllo delle stesse. Può essere importante l’uso di ausili per ipovedenti che permettono di sfruttare al meglio il residuo visivo.

Atrofia Girata

Cos’è?

L’atrofia girata è una distrofia corioretinica ereditaria: colpisce la coroide e la retina danneggiandoli irreparabilmente. Viene trasmessa in forma autosomica recessiva (entrambi i genitori presentano il difetto genetico). In genere i sintomi si avvertono attorno ai 20-30 anni.

Da cosa è causata?

Da una mutazione di un gene responsabile della produzione dell’enzima ornitina aminotransferasi, coinvolto nel metabolismo dell’ornitina (proteina che viene sintetizzata anche attraverso la dieta). Il danno oculare si manifesta con aree di atrofia retinica: si perde progressivamente la funzionalità della retina.

Quali sono i suoi sintomi?

I sintomi consistono soprattutto in disturbi della visione notturna e nella riduzione periferica del campo visivo. La visione centrale viene, invece, conservata anche in età molto avanzata. La progressione della malattia è, comunque, molto lenta.

Come si effettua la diagnosi?

La diagnosi viene effettuata con l’esame del fondo oculare: si evidenziano aree focali in periferia (e media periferia) di atrofia corioretinica. La fluorangiografia non è esame fondamentale per la diagnosi. L’elettro-oculogramma (EOG) si presenta alterato così come l’elettroretinogramma (ERG). È molto importante valutare il dosaggio dell’ornitina sierica, nelle urine ed eventualmente nel fluido cerebrospinale; infatti la sua presenza in quantità elevate si associa alla malattia.

Ci sono altre malattie sistemiche associate all’atrofia girata?

Sono state riscontrate alterazioni della funzionalità epatica; in alcuni casi si presentano patologie della struttura delle ossa e anomalie a livello di elettroencefalogramma.

Che terapie sono disponibili?

Alcune ricerche hanno evidenziato che, diminuendo l’apporto di arginina attraverso la dieta, si riducono i livelli sierici di ornitina e, quindi, si rallenta la progressione della malattia.

Lenti a contatto

Immagine: lente a contatto

(correttive o terapeutiche)

Cosa sono?

Le lenti a contatto (LAC) sono “dispositivi medici” per la correzione dei disturbi refrattivi (miopia, ipermetropia e astigmatismo). Soprattutto per difetti di una certa entità, grazie al loro impiego la visione è generalmente migliore e più ampia rispetto a quella che normalmente si ottiene con gli occhiali. Tuttavia la loro manutenzione e un loro corretto impiego sono fondamentali per preservare la salute oculare (bisogna seguire le norme igieniche).

Quali tipi esistono?

Immagine: lente a contatto Anche se esistono centinaia di tipi diversi, possiamo dividere le lenti a contatto in due grandi gruppi: morbide e rigide (categoria che comprende quelle gas-permeabili, dette anche semirigide). Inoltre, ve ne sono di terapeutiche (senza potere refrattivo) che vengono impiegate esclusivamente dai medici oculisti: sono in grado di rilasciare farmaci nell’occhio (ad esempio antibiotici) e, dunque, per alcune patologie possono essere di grande utilità. Lo stesso tipo viene utilizzato in seguito a certi interventi chirurgici effettuati sulla cornea (ad esempio dopo il laser PRK).

Un particolare tipo di lenti a contatto rigide gas-permeabili, dette “a superficie invertita”, vengono utilizzate nell’ortocheratologia: applicandole durante la notte (cosa che normalmente non bisogna mai fare) si modifica la superficie corneale e, in alcuni casi, si possono correggere alcuni difetti refrattivi.

Quali difetti correggono?

Permettono di correggere difetti visivi sfero-cilindrici di varia entità (diottrie di miopia, ipermetropia e astigmatismo). Per astigmatismi medio-elevati, oltre le due diottrie, si ottiene una correzione migliore con l’uso delle lenti rigide.

Che caratteristiche hanno?

Le lenti a contatto vengono applicate sulla superficie oculare e “galleggiano” sul film lacrimale. Inoltre le lenti morbide, ricche d’acqua, assorbono la componente acquosa delle lacrime. Dunque una buona funzionalità lacrimale è importante.

Sia le lenti a contatto morbide che quelle rigide sono costruite in base a una serie di parametri; infatti non tutti gli occhi sono uguali. I parametri fondamentali di una lente morbida sono la geometria della lente (la forma), il raggio base, il diametro della lente, il materiale che la compone e, ovviamente, il suo potere refrattivo (capacità d’ingrandimento).

Come applicarle la prima volta?

Immagine: applicazione di una lente a contatto È fondamentale che la prima applicazione di una lente a contatto venga fatta da una persona esperta, capace non solo di scegliere la lente migliore per la singola persona, ma anche di fornire informazioni sul suo corretto utilizzo. È, inoltre, essenziale provare le lenti stesse e verificare che non si avverta una sensazione di fastidio dopo un po’.

Che problemi si possono avere?

L’uso improprio delle lenti a contatto può portare a importanti complicanze dovute principalmente a:

  • ipossia cronica: dovuta al fatto che le lenti riducono la quantità di ossigeno che giunge alla cornea (però ne esistono di tipi che lasciano traspirare meglio la superficie oculare);
  • microtraumatismo: per la presenza continua di un corpo estraneo nell’occhio (la lente), che si può anche rompere;
  • infezioni: dovute alla presenza di germi patogeni nella lente, a causa delle manipolazioni o della non perfetta manutenzione (bisogna usare solo gli speciali liquidi di conservazione e sostituire periodicamente il contenitore portalenti).

Questi fenomeni possono essere la causa di vere e proprie cheratiti e/o congiuntiviti oppure di disturbi “minori” ma fastidiosi: bruciore, prurito, intolleranza alle lenti, sensibilità alla luce (fotofobia) e occhi arrossati. I disturbi più lievi possono portare all’impossibilità di continuare a portare le lenti a contatto, mentre quelli più gravi possono compromettere la funzione visiva stessa dell’occhio (come l’ulcera corneale).

Infine, è importante sottolineare la necessità di una corretta applicazione e gestione delle lenti a contatto, al fine di ottenere un’ottima qualità visiva e ridurre al minimo le possibili complicanze correlate al loro impiego, prestando sempre attenzione all’igiene (devono essere applicate con le mani lavate e asciutte, non vanno mai messe sotto l’acqua corrente, non vanno mai tenute oltre i tempi indicati).

Possono sostituire integralmente gli occhiali?

Foto: lente a contattoLe lenti a contatto non dovrebbero sostituire integralmente gli occhiali: non bisogna esagerare col loro uso (anche perché, alla lunga, si rischia di avere fenomeni di sensibilizzazione). Il tempo massimo di utilizzo cambia da soggetto a soggetto e dipende da molti fattori, tra cui il tipo di lente utilizzata.

Comunque, quando le lenti cominciano a dare fastidio, si appannano e l’occhio si arrossa bisognerebbe rimuoverle senza indugio e utilizzare gli occhiali (generalmente dopo 6-8 ore al massimo). È, inoltre, consigliabile instillare lacrime artificiali senza conservanti, in modo tale da idratare adeguatamente l’occhio e prevenire un’eventuale secchezza.

Immagine:  lente a contatto progettata al computer

Leggi anche il Dodecalogo per l’uso corretto delle lenti a contatto

Pucker maculare

pucker_maculare-web.jpg

Cosa è?

pucker_maculare-web.jpgIl pucker maculare (membrana epiretinica) è un’alterazione anatomica dell’interfaccia tra il corpo vitreo e la retina: consiste nello sviluppo di una sottile membrana traslucida sopra la macula (zona centrale della retina). Quando tale membrana si contrae e si arriccia causa una deformazione e una progressiva distorsione della macula stessa, con conseguente peggioramento della visione centrale.

Quali sono i sintomi?

Al momento della comparsa i sintomi sono rappresentati da una lieve distorsione delle immagini e, soprattutto, dei testi scritti con i caratteri più piccoli (le righe appariranno ondulate). Quando la trazione esercitata dalla membrana sulla macula aumenta, allora anche la distorsione delle righe è maggiore (metamorfopsie) e la lettura dei testi con l’occhio interessato diventa più difficile. L’evoluzione della malattia porta, infine, alla sofferenza dei fotorecettori della zona centrale della retina con la conseguente comparsa di una macchia che impedisce la visione centrale.

Quali sono le cause?

Nella maggior parte dei casi si forma spontaneamente per ragioni ancora non note. Tra le altre cause ipotizzate ci sarebbero soprattutto processi infiammatori (edema maculare da molto tempo) o la complicanza di trattamenti laser retinici (particolarmente panfotocoagulazioni in pazienti affetti da retinopatia diabetica).
Macula colpita da un raggio di luce (Immagine: Lund University)

Come viene eseguita la diagnosi?

Durante la visita oculistica lo specialista può effettuare un test per valutare l’effettiva entità della distorsione delle righe mediante una griglia (test di Amsler). La diagnosi comunque viene fatta grazie all’esame del fondo oculare, che permette di visualizzare la membrana. Tuttavia, la conferma deve essere ottenuta tramite OCT (esame che consente di analizzare gli strati della retina, in particolare la macula), il quale permette di valutare l’entità della trazione e, inoltre, aiuta a controllare nel tempo la sua evoluzione.

Quali sono le terapie?

Inizialmente si valuta l’evoluzione dello sviluppo della membrana, senza effettuare un’azione diretta ma – come abbiamo detto – eseguendo soltanto controlli frequenti del fondo oculare e l’OCT. Nel momento in cui la trazione comporta una riduzione dell’acuità visiva rilevante si rende necessario l’intervento chirurgico di rimozione della membrana (vitrectomia con peeling maculare). Questa operazione permette di bloccare i meccanismi di trazione e, in alcuni casi, di appianare la retina, con un possibile miglioramento della sintomatologia (la distorsione viene ridotta). E’ comunque un intervento molto delicato, in quanto si agisce direttamente sulla zona più importante della retina (la macula) e purtroppo non sempre consente di ottenere il risultato sperato.

Link utile: Consenso informato SOI

Calazio

calazio

Cos’è?

Si tratta di una piccola neoformazione caratterizzata dall’infiammazione delle ghiandole di Meibomio, che si trovano all’interno delle palpebre e contribuiscono, col loro secreto, alla formazione delle lacrime.

Quali sono i sintomi?

Gonfiore delle palpebre, accompagnato da arrossamento, dolore, secrezione e infiammazione della congiuntiva. L’entità dei sintomi dipende dal grado d’infiammazione della ghiandola e dal numero di ghiandole coinvolte. La dimensione del calazio varia: può essere piccola (tipo un grano di miglio) oppure più grande, fino ad arrivare a gonfiori talmente consistenti da causare la chiusura della palpebra.

Quali sono le cause?

Generalmente il calazio è legato a disordini alimentari, soprattutto al consumo eccessivo di insaccati, dolciumi, ecc. Altrimenti, in alcuni casi, soprattutto nei bambini può essere dovuto a difetti visivi non corretti. Infatti, la contrazione involontaria dei muscoli oculari – che servono per mettere a fuoco – causa la chiusura del dotto escretore delle ghiandole di Meibomio e, quindi, il secreto ghiandolare trova difficoltà a fuoriuscire, con conseguente gonfiore e infiammazione (metaforicamente è come se si otturasse un lavandino). Inoltre, il calazio può essere associato a blefariti.

Quali tipi di terapia sono indicati?

Sicuramente la terapia di base consiste in una dieta sana, con un’eventuale assunzione di fermenti lattici vivi, in modo da regolarizzare l’assorbimento intestinale dei nutrienti. Inoltre è indicato un delicato massaggio della palpebra gonfia per cercare di rimuovere meccanicamente l’ostruzione del dotto escretore della ghiandola.

L’applicazione di pomate antibiotiche o antibiotico-cortisoniche va prescritta esclusivamente dal medico oculista (si può procedere a un massaggio circolare della parte gonfia per 5-10 minuti, che aiuta la guarigione). In ogni caso, potrebbero verificarsi delle ricadute. È opportuno, inoltre, accertarsi che non siano presenti difetti visivi non corretti perché l’affaticamento visivo può contribuire all’insorgenza del calazio.

Cosa va evitato?

Bisogna evitare gli impacchi, soprattutto quelli caldi: la palpebra è un tessuto molto delicato e alcune sostanze – soprattutto se concentrate – possono causare fenomeni di sensibilizzazione (allergie). Inoltre non bisogna cercare di spremerlo o di sfregare la palpebra con violenza. Nel caso in cui, invece, si massaggi delicatamente la palpebra bisogna lavarsi prima accuratamente le mani.

Quanto dura?

Generalmente la tumefazione scompare entro 7-10 giorni. Tuttavia, se dopo due o tre settimane il calazio permanesse ancora, potrebbe essere che si sia formata una “capsula” che congloba la ghiandola: in questo caso occorre procedere, dietro indicazione dell’oculista, a un piccolo intervento chirurgico ambulatoriale per l’asportazione di una o più ghiandole.

Orzaiolo

occhio con orzaiolo

occhio con orzaiolo

Cos’è?

È un’infezione comune e acuta di un follicolo ciliare (dotto che contiene le ciglia) e della ghiandola di Zeiss.

Quali sono i sintomi?

Gonfiore e arrossamento delle palpebre. Sul bordo palpebrale è spesso presente un rigonfiamento con un puntino biancastro. Può causare dolore locale, che può essere anche molto fastidioso. La lacrimazione può essere più intensa della norma e ci può essere sensazione di corpo estraneo nell’occhio.

Quali cause ha?

L’orzaiolo è generalmente causato da un batterio, lo Staphylococcus aureus (90-95% dei casi [Lo Staphylococcus epidermidis è un’altra causa possibile: si veda la pubblicazione “[Stye” (2018) ]]). Tuttavia, quando gli orzaioli si presentano frequentemente e contemporaneamente (compaiono tra l’altro foruncoli cutanei in altre zone del corpo) è opportuno sottoporsi a esami clinici non solo oculistici e a visite dermatologiche.

Quali tipi di terapia sono indicati?

Pomate, spesso antibiotiche, che andrebbero prescritte sempre da un medico oculista. Generalmente la rottura spontanea del gonfiore, con la conseguente fuoriuscita del pus, allevia i sintomi fino al suo spontaneo riassorbimento. Non è il caso però di ricorrere a impacchi, soprattutto se caldi, perché potrebbero irritare ulteriormente le palpebre.

Cosa va evitato?

Vanno evitate le terapie fai-da-te; bisogna invece affidarsi alle indicazioni di un oculista di fiducia. Inoltre non bisogna mai cercare di spremere l’orzaiolo come se fosse un brufolo perché si rischia di sortire un effetto contrario, propagando l’infezione e irritando ulteriormente la cute palpebrale.

Cosa si può fare per prevenirlo?

Localmente è molto importante una costante detersione del bordo palpebrale e una buona igiene (mani comprese). Anche una corretta alimentazione può contribuire alla prevenzione dell’orzaiolo.

Degenerazione maculare legata all’età (AMD o DMLE)

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Cos’è?

Con l’espressione “degenerazione maculare” si indica una malattia retinica che provoca un’alterazione, una riduzione della funzionalità della zona centrale della retina (la macula) fino a una perdita della visione centrale.

Cosa provoca?

È causa di un’importante e irreversibile riduzione della funzionalità visiva a livello del campo visivo centrale. Il fenomeno correlato più comune è il processo d’invecchiamento dell’occhio: la macula, contenente numerosi fotorecettori (vi sono concentrati i coni), si altera sino a perdere le sue caratteristiche. Ciò è dovuto alla morte delle cellule retiniche, che può essere lenta e progressiva oppure più rapida e drammatica.

Quant’è diffusa?

La degenerazione maculare legata all’età (AMD o DMLE) è attualmente considerata la prima causa di cecità centrale nei Paesi di maggior benessere e la terza in assoluto. Indicativamente il 5% della cecità mondiale è attribuibile all’AMD, una percentuale che sale però al 41% nei Paesi benestanti. Inoltre è un’importante causa d’ipovisione.

amd-opuscolo-copertina.jpgSi prevede che, nel 2020, circa 196 milioni di persone saranno colpite da degenerazione maculare legata all’età, una cifra che probabilmente è destinata a crescere con l’invecchiamento demografico mondiale (soprattutto nei Paesi di maggior benessere).

L’incidenza dell’AMD è rara prima dei 55 anni, ma aumenta soprattutto dopo i 75 anni. La forma più grave della malattia, detta “umida”, è meno frequente e a più rapida evoluzione ma attualmente è l’unica considerata trattabile.

Quali sono i suoi sintomi?

I sintomi iniziali consistono in una distorsione delle immagini che interessa il centro del campo visivo (ossia dove si punta lo sguardo); difficoltà nella lettura e nello svolgimento di attività a distanza ravvicinata, in cui è richiesta la visione dei piccoli dettagli; perdita della brillantezza dei colori. La degenerazione maculare comporta dunque una severa penalizzazione, ma è bene sottolineare che essa (anche nei casi più gravi) non provoca la cecità totale, in quanto la visione paracentrale e laterale viene conservata. Comunque si tratta di una patologia fortemente invalidante, che può avere anche gravi ripercussioni sul piano psicologico.

CAUSE

L’eziologia dell’AMD non è stata tuttora dimostrata, ma sono stati evidenziati numerosi fattori di rischio associati alla sua comparsa, quali i seguenti: età superiore ai 55 anni, sesso maschile, fumo di sigaretta, abuso di alcol, diabete mellito, vita sedentaria, dieta povera di vitamine e acidi grassi (in particolare omega-3), ipertensione arteriosa, disturbi della coagulazione, esposizione prolungata e ripetuta a sorgenti di luce molto intense. Inoltre è ormai acclarata la familiarità come principale fattore di rischio nello sviluppo della malattia da parte di soggetti con parenti di primo grado che ne sono affetti (l’origine è infatti genetica). [[Nei familiari di primo grado malati di AMD il rischio di svilupparla è superiore, rispetto alla popolazione generale, dalle 3 alle 6 volte. Esistono indicativamente cinque categorie di geni coinvolti: quelli che controllano l’infiammazione e la risposta cellulare, il metabolismo e il trasporto
dei lipidi, la matrice extracellulare e l’adesione cellulare, l’angiogenesi e la risposta allo stress cellulare.]]

Numerosi sono i fattori genetici che sono stati associati a un incremento del rischio di sviluppare la maculopatia. Tra questi vi sono soprattutto i geni CFH e ARMS2: in particolare la variante del gene CFH (chiamata rs1061170) è stata associata a un aumento di almeno cinque volte del rischio di ammalarsi di AMD.

Tra l’altro è possibile effettuare un test genetico mediante tampone orale per conoscere il rischio di ammalarsi di AMD, ma al momento in cui scriviamo la sua affidabilità non è ancora molto alta [[è stimata attorno al 75%]]. Uno studio pubblicato a novembre del 2012 individua, inoltre, un meccanismo genetico che, provocando l’aumento dell’espressione di una proteina nella retina (IL17RC), promuoverebbe l’infiammazione della macula e l’attacco, da parte di cellule del proprio sistema immunitario, delle sue stesse cellule (che di conseguenza muoiono).

CLASSIFICAZIONE

Esistono due forme di degenerazione maculare legata all’età (detta anche degenerazione maculare senile), entrambe associate ad alterazioni del microcircolo capillare, tipiche dell’età avanzata: la forma secca (o atrofica) e quella umida (o essudativa); queste andrebbero considerate come due patologie distinte, poiché le loro prognosi ed eventuali terapie sono del tutto diverse.

La forma secca o atrofica (85-90% dei casi) è caratterizzata da un assottigliamento progressivo della retina centrale, che risulta scarsamente nutrita dai capillari (poco efficienti) e, di conseguenza, si atrofizza (muoiono le cellule nervose fotosensibili), determinando la formazione di una cicatrice in sede maculare con un aspetto detto a “carta geografica” (aureolare).

L’altra forma di degenerazione maculare, quella più grave e a più rapida evoluzione, è detta umida o essudativa (10-15% dei casi): è complicata dalla formazione di nuovi capillari con una parete molto fragile. Questi vasi sono permeabili al plasma (la parte liquida del sangue) e possono dare origine, quindi, a distacchi sierosi dell’epitelio pigmentato retinico e, nei casi più avanzati, si possono rompere facilmente, provocando un’emorragia retinica. I ripetuti episodi emorragici e di riparazione tissutale sono responsabili della formazione di una cicatrice centrale più o meno esuberante.

Entrambe le forme di degenerazione maculare si accompagnano, a livello maculare, alle drusen, ossia a corpi colloidi: si tratta di depositi di “scarto” di forma irregolarmente rotondeggiante, situati sotto la retina (depositi subepiteliali piccoli e polimorfi). Se ne possono distinguere essenzialmente due tipi: hard drusen (meno gravi) e soft drusen (potenzialmente più nocive per la vista).

La cosiddetta fase delle drusen è generalmente priva di sintomi e solitamente non dà origine a riduzione dell’acutezza visiva. A volte si può presentare tuttavia una distorsione centrale delle immagini, principalmente delle linee rette (metamorfopsie).

Secondo uno studio pubblicato su Jama Ophthalmology il 2 aprile 2015, l’età senile e la mutazione di due alleli (CFH e ARMS2) sono i due principali fattori di rischio associati allo sviluppo di accumuli proteici:

La copresenza di drusen medie e di anomalie nell’epitelio pigmentato retinico è segno di un rischio maggiore di progressione dell’AMD avanzata rispetto alla sola presenza delle drusen di medie dimensioni.

DIAGNOSI

Durante la visita specialistica l’oculista esamina la parte centrale della retina (esame del fondo oculare) con uno strumento detto oftalmoscopio e tramite lenti che consentono, dopo aver dilatato le pupille, di osservare la retina centrale. Oftalmoscopicamente le drusen appaiono come piccoli depositi di colore giallastro.

Un esame molto facile da eseguire ed utilissimo per monitorare nel tempo l’evoluzione della patologia è il reticolo di Amsler (una griglia a quadretti con un punto centrale), che consente di riconoscere distorsioni o zone cieche centrali. Uno dei sintomi presenti è, infatti, una distorsione delle linee rette (righe di un quaderno, linee formate dalle mattonelle del pavimento) in prossimità del centro del campo visivo. In questi casi è importante sottoporsi a un controllo medico oculistico per una diagnosi precisa.

In alcuni casi, per meglio inquadrare la situazione clinica, si eseguono degli esami diagnostici specifici, quali l’OCT (esame non invasivo che consente di visualizzare i singoli strati della retina) e, quando necessario, l’angiografia con fluoresceina e/o l’angiografia al verde di indocianina. Questi ultimi sono esami fotografici non radiologici che – attraverso l’iniezione in vena di un cosiddetto mezzo di contrasto – consentono di ottenere immagini dettagliate della circolazione sanguigna (nella retina e nella coroide).

Tali indagini consentono allo specialista di fare la diagnosi e di studiare la malattia, oltre a essere una guida preziosa a un eventuale trattamento.

Trattamenti e altro

A seconda che si tratti della forma secca oppure di quella umida l’approccio è differente. Le forme secche sono considerate ancora oggi incurabili; tuttavia potrebbe essere possibile, una volta diagnosticata, rallentarne almeno in parte l’evoluzione (ad esempio mediante un corretto stile di vita che va da esercizi fisici regolari a una dieta variata), anche se la questione resta scientificamente controversa. Inoltre esistono alcuni casi in cui le forme secche evolvono in quelle umide.

Alcuni ricorrono a integratori alimentari a base di sostanze antiossidanti, che potrebbero aiutare a combattere la formazione dei radicali liberi e l’ischemia del tessuto retinico maculare (ossia la sua morte dovuta alla riduzione o all’arresto dell’apporto di sangue alla retina). Quelli più comunemente utilizzati sono la luteina, le vitamine A ed E, i sali minerali (quali lo zinco, il rame e il selenio) e gli antiossidanti vegetali (quali la zeaxantina e l’astaxantina). Tuttavia la loro possibile efficacia è stata ridimensionata dallo studio AREDS2.

La terapia fotodinamica

La forma umida (essudativa) può essere trattata con terapia fotodinamica, attuata mediante un tipo particolare di laser, previa iniezione endovenosa di una sostanza chiamata verteporfirina che, una volta attivata dalla luce laser, consente l’occlusione selettiva dei nuovi vasi (crea dei trombi che chiudono i capillari nocivi), senza danneggiare il tessuto retinico circostante. Tuttavia può essere effettuata con successo solamente nelle forme subfoveali, cioè sotto la fovea (la regione centrale avascolare della macula) e iuxtafoveali (a 200-500 micron dalla fovea). Spesso sono necessarie ripetute sedute nel tempo e, purtroppo, talvolta la malattia può ripresentarsi a distanza di mesi (recidiva).

Le iniezioni intravitreali

L’altra possibilità terapeutica nelle forme essudative è rappresentata dalle iniezioni intravitreali di farmaci anti-VEGF. Si tratta di sostanze che agiscono inibendo la proliferazione di nuovi vasi sanguigni della retina (antiangiogenici), che provocano la comparsa di membrane sottoretiniche e di sanguinamenti. Questi farmaci (bevacizumab[[L’Avastin, originariamente sintetizzato come principio attivo di un trattamento antitumorale (contro il cancro del colon retto), è stato poi impiegato anche per altri scopi, compresi quelli oftalmici, vista la sua proprietà di inibire la proliferazione incontrollata dei vasi retinici dannosi. Viene utilizzato esclusivamente a scopi di ricerca; ad uso oftalmico è impiegato in Italia solo come off-label, ossia esulando delle indicazioni terapeutiche riportate nel foglietto illustrativo.]], ranibizumab [[al momento in cui scriviamo in Italia il farmaco intravitreale è rimborsato – laddove la struttura sanitaria ne abbia disponibilità – dal Servizio Sanitario Nazionale per le persone con degenerazione maculare legata all’età (forma neovascolare attiva) con acuità visiva uguale o superiore ai due decimi con la migliore correzione (ossia con uso di lenti).]], aflibercept e pegaptanib sodico sono i nomi dei principi attivi) permettono, quindi, di ottenere dei risultati nella cura delle degenerazioni maculari essudative con membrane neovascolari non cicatriziali (possono essere somministrate nel caso della forma umida, a più rapido decorso ma meno comune rispetto alla forma secca).

La loro somministrazione deve essere effettuata in ambiente sterile, con tutte le norme igieniche tipiche di una sala operatoria. Si può arrivare a ottenere un forte rallentamento dell’evoluzione della malattia; tuttavia, perché il trattamento possa essere efficace va ripetuto per alcuni mesi. Se, invece, il trattamento – somministrato il più delle volte ogni quattro-sei settimane – non desse benefici ovviamente dovrà essere sospeso.

Secondo un autorevole studio scientifico [Bracha P, Moore NA, Ciulla TA, WuDunn D, Cantor LB, “The acute and chronic effects of intravitreal anti-vascular endothelial growth factor injections on intraocular pressure: A Review”, [Surv Ophthalmol. 2017, Sep 4. pii: S0039-6257(17)30114-5. doi: 10.1016/j.survophthal.2017.08.008, [Epub ahead of print] Review]] “i pazienti che ricevono ripetutamente iniezioni [intravitreali] dovrebbero essere monitorati per ipertensione oculare e coloro che la sviluppano successivamente dovrebbero essere monitorati periodicamente per cambiamenti relativi al glaucoma, mediante un tomografia a coerenza ottica (OCT) del nervo ottico e campi visivi statici”.

Le ricerche scientifiche

Una ricerca pubblicata sul New England Journal of Medicine [[“Ranibizumab and Bevacizumab for Neovascular Age-Related Macular Degeneration”, The CATT Research Group, N Engl J Med. 2011 Apr 28., e-pub. Lo studio è stato finanziato dal National Eye Institute (ClinicalTrials.gov number, NCT00593450).]] nel 2011 è giunta alla conclusione che, a distanza di un anno dall’inizio del trattamento con iniezioni intravitreali, le due molecole generalmente utilizzate contro l’AMD umida (bevacizumab e ranibizumab) hanno i medesimi effetti sull’acuità visiva. “Test clinici – puntualizzano i ricercatori dello studio chiamato CATT (Comparison of Age-related Macular Degeneration Treatments Trials) – hanno stabilito l’efficacia del ranibizumab per il trattamento della degenerazione maculare legata all’età (AMD) neovascolare. Inoltre il bevacizumab viene usato off-label (ossia esulando dalle indicazioni del foglietto illustrativo, ndr) per trattare l’AMD, nonostante l’assenza di analoghi dati a supporto”. In Italia può essere utilizzato come off-label ossia andando oltre le indicazioni contenute nel foglietto illustrativo stesso.

Durante lo studio citato, condotto su 1208 pazienti affetti da AMD neovascolare, “sono state somministrate iniezioni intravitreali di ranibizumab o di bevacizumab in base a una cadenza mensile oppure al bisogno con valutazione mensile. Il risultato primario è stato un cambiamento medio nell’acuità visiva a un anno, con un limite non inferiore di 5 lettere [guadagnate] sull’ottotipo”. Come risultati – prosegue il New England Journal of Medicine – bevacizumab somministrato mensilmente è stato equivalente al ranibizumab somministrato mensilmente, rispettivamente con 8,0 e 8,5 lettere guadagnate“. Inoltre, proseguono i ricercatori, “la diminuzione media dello spessore retinico centrale è stata maggiore nel gruppo del ranibizumab mensile (196 µm) rispetto agli altri gruppi (da 152 a 168 µm)”. In conclusione, si legge ancora sulla prestigiosa pubblicazione britannica, “ad un anno il bevacizumab e il ranibizumab hanno avuto effetti equivalenti sull’acuità visiva quando somministrati secondo lo stesso protocollo. Il ranibizumab somministrato al bisogno, con una valutazione mensile, ha avuto effetti sulla visione equivalenti a quelli del ranibizumab somministrato mensilmente”. Tuttavia, conclude il CATT, “le differenze nell’incidenza di seri effetti collaterali richiedono ulteriori studi”.

Il 2 maggio 2012 la rivista Ophthalmology (rivista dell’Accademia Americana di Oftalmologia) ha pubblicato on-line uno studio (a firma degli stessi ricercatori del CATT) in cui si concludeva quanto segue: “In un periodo di due anni il ranibizumab e il bevacizumab hanno effetti simili sull’acuità visiva”. Lo studio – multicentrico (condotto in diverse università americane e presso il National Eye Institute statunitense) e randomizzato (ossia il trattamento è stato scelto casualmente) – è stato condotto su 1107 pazienti affetti da degenerazione maculare correlata all’età di tipo neovascolare. Anche l’American Academy of Ophthalmology ha dato risalto alla notizia nel proprio sito ufficiale, specificando tra l’altro che “nello studio biennale i tassi di gravi eventi come l’ictus, l’infarto e il decesso sono stati simili in chi ha ricevuto uno dei due farmaci”. Come avvenuto il primo anno – scrive ancora l’AAO – anche nel secondo si è manifestata una percentuale più alta di effetti collaterali non specifici gravi nei pazienti a cui veniva somministrato bevacizumab (40%) rispetto a quelli trattati con ranibizumab (32%). “I ricercatori, osserva ancora l’American Academy of Ophthalmology, sostengono che l’importanza degli effetti collaterali non è chiara; tuttavia potrebbe essere correlata al fatto che l’età media dei pazienti del CATT era di 80 anni, una fascia della popolazione in cui le malattie croniche o acute sono più comuni e ci si attende un tasso di ospedalizzazione più elevato”.

In un altro studio pubblicato nel 2013 sempre su Ophthalmology i ricercatori scrivono che entrambi i principi attivi (ranibizumab e bevacizumab) “sono trattamenti molto efficaci nel preservare l’acuità visiva (VA) nelle persone con degenerazione maculare correlata all’età (AMD)” [Glenn J. Jaffe, Daniel F. Martin, Cynthia A. Toth, Ebenezer Daniel, Maureen G. Maguire, Gui-Shuang Ying, Juan E. Grunwald, Jiayan Huang, “Macular Morphology and Visual Acuity in the Comparison of Age-related Macular Degeneration Treatments Trials”, Comparison of Age-related Macular Degeneration Treatments Trials Research Group, [Ophthalmology – September 2013 (Vol. 120, Issue 9, Pages 1860-1870, DOI: 10.1016/j.ophtha.2013.01.073)]].

Nelle conclusioni di una ricerca pubblicata on-line su Retina il 7 agosto 2014 si legge: “Il bevacizumab e il ranibizumab hanno avuto un’efficacia equivalente sulla migliore acuità visiva corretta nel trattamento della degenerazione maculare legata all’età. Il ranibizumab ha avuto la tendenza a consentire un miglior risultato anatomico. Non ci sono state differenze tra i due farmaci nei tassi di mortalità, di eventi aterotrombotici o di eventi trombotici venosi”; ma saranno necessari ulteriori studi per averne ulteriori conferme [Chen G, Li W, Tzekov R, Jiang F, Mao S, Tong Y, “Bevacizumab versus ranibizumab for neovascular age-related macular degeneration: a meta-analysis of randomized controlled trials”, [Retina, 2014 Aug 7 (Epub ahead of print)]].

La posizione dell’Agenzia italiana del farmaco

L’Agenzia italiana del farmaco (l’AIFA è l’autorità governativa preposta all’approvazione e al controllo dei farmaci) aveva scritto, a proposito del bevacizumab, che ci sono “gravi reazioni avverse di tipo sistemico quali emorragie non oculari ed eventi tromboembolici arteriosi in seguito ad iniezione intravitreale di inibitori di VEGF”. Inoltre aveva sottolineato che il bevacizumab “non è formulato per uso intravitreale” ossia non è stato concepito per impiego oftalmico.

Alla luce di queste osservazioni, l’Agenzia italiana del farmaco nel 2012 aveva deciso di abolire le rimborsabilità del farmaco più economico da parte del Sistema Sanitario Nazionale se l’uso è a carattere oftalmico. Tuttavia, alla metà del 2014, l’AIFA è tornata sui suoi passi. Infatti, la Commissione Tecnico Scientifica dell’AIFA, nel corso nella seduta del 9 e 10 giugno, si era espressa a favore dell’inserimento di bevacizumab (Avastin) nell’elenco dei farmaci erogabili a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), ai sensi della legge 648/96, per il trattamento della degenerazione maculare legata all’età (AMD), naturalmente nella sua forma umida o essudativa.

Tale Commissione aveva accolto la richiesta di due Regioni per l’utilizzo del farmaco nell’indicazione non registrata, individuando all’unanimità una serie di condizioni indispensabili a tutela della salute dei pazienti:

  1. il confezionamento in monodose del farmaco bevacizumab per l’uso intravitreale dovrà essere effettuato, per garantirne la sterilità, esclusivamente dalle farmacie ospedaliere in possesso dei requisiti necessari, nel rispetto delle Norme di Buona Preparazione (tuttavia c’è una sentenza del Consiglio di Stato pubblicata il 9 gennaio 2017 che estende tale pratica anche alle farmacie territoriali) [“la garanzia di sterilità non può giustificarsi con la sola natura ospedaliera della farmacia incaricata del confezionamento del prodotto, ma, semmai, con la previsione delle necessarie dotazioni tecniche e metodiche da utilizzarsi, ritenute idonee a scongiurare la contaminazione del prodotto durante la lavorazione” (si legga l’articolo integrale di [Quotidianosanità basato sulla Sentenza del Consiglio di Stato N. 00024/2017)]];
  2. la somministrazione di bevacizumab per uso intravitreale dovrà essere riservata a centri oculistici ad alta specializzazione presso ospedali pubblici individuati dalle Regioni;
  3. la somministrazione del farmaco potrà avvenire solo previa sottoscrizione da parte del paziente del consenso informato, che contenga le motivazioni scientifiche accompagnate da adeguate informazioni sull’esistenza di alternative terapeutiche approvate, seppure ad un costo più elevato a carico del SSN;
  4. l’attivazione di un registro di monitoraggio a cui sia allegata la scheda di segnalazione delle reazioni avverse.

Secondo uno studio pubblicato su Eye nel 2017 [Lotery A, Griner R, Ferreira A, Milnes F, Dugel P, “Real-world visual acuity outcomes between ranibizumab and aflibercept in treatment of neovascular AMD in a large US data set”, [Eye (Lond). 2017 Jul 21. doi: 10.1038/eye.2017.143 (epub before print)]] ranibizumab e aflibercept hanno effetti comparabili. Tuttavia in questo stesso studio non è stato preso in considerazione il bevacizumab.

Una sentenza della Corte di giustizia europea del 21 novembre 2018 dà ragione a coloro che hanno difeso l’impiego off-label del farmaco anti-VEGF, con la possibilità quindi di ricorrere anche a uno suo utilizzo a livello ospedaliero. Hanno vinto la controversia legale il Ministero della Salute, la Regione Emilia-Romagna, la Regione Veneto, la Società Oftalmologica Italiana (SOI) e l’Associazione Medici Oculisti Italiani (AMOI). Anche il Consiglio Superiore di Sanità e la stessa AIFA, dal canto loro, hanno conseguito una vittoria legale.

La posizione della SOI

Secondo la Società Oftalmologica Italiana (SOI) ranibizumab e bevacizumab hanno infatti “effetti equivalenti sull’acuità visiva” [come recita il Consenso informato SOI]. Tuttavia secondo la onlus Insieme per la vista [[fondata dalla stessa SOI]] “in Italia la cura della degenerazione maculare senile con le iniezioni intravitreali è garantita dal SSN [il Sistema Sanitario Nazionale] con inaccettabili limitazioni”. Infatti “la cura non viene erogata a chi ha meno di 2/10 di visus. Questo impedisce di fatto a chi ne ha più bisogno di mantenere quella visione residua in grado di garantire al paziente l’autosufficienza e una vita dignitosa”. Tale trattamento, infatti, al momento in cui scriviamo viene erogato per un occhio solo. “Chi è affetto da degenerazione maculare senile in tutte e due gli occhi – sostiene Per vedere fatti vedere – deve poterli curare entrambi con la copertura del Servizio Sanitario Nazionale”. Scrive ancora la SOI:

La Corte Europea si è pronunciata in modo chiaro ed incontestabile[Il riferimento è alla [sentenza del 23 gennaio 2018 firmata dalla Grande Sezione della Corte UE (C-179/16)]]: ha confermato la situazione di illegittimità organizzata nel nostro Paese per mettere da parte Avastin e favorire la commercializzazione di Lucentis, due farmaci equivalenti che consentono ai Pazienti affetti da malattie della retina, le maculopatie, di conservare la vista. […] Una politica diversamente impegnata non è stata in grado di agire per correggere le iniziali indicazioni dell’Agenzia Italiana del Farmaco, deus ex machina di quel groviglio di interventi che hanno dimostrato solo di limitare le terapie salva vista a pochi centri in Italia.[…]
Nel 2017 in Italia sono state effettuate 300.000 iniezioni salva vista, mentre sia in Germania, Inghilterra e Francia ne sono state eseguite oltre un Milione (Dati IMS). Vuol dire che nel nostro Bel Paese si curano in modo insufficiente il 70% dei malati.[Fonte: [pagina FB ufficiale della Società Oftalmologia Italiana]]

Il parere del Consiglio Superiore di Sanità

Il Consiglio Superiore di Sanità (CSS), il 15 aprile 2014, ha espresso il seguente parere: “I dati attualmente valutabili dalla comunità scientifica evidenziano che i medicinali Lucentis (Ranibizumab) e Avastin (Bevacizumab), pur nella diversità strutturale e farmacologica delle molecole, non presentano differenze statisticamente significative dal punto di vista dell’efficacia e della sicurezza nella terapia della degenerazione maculare senile”.

Il Consiglio Superiore di Sanità ritiene, pertanto, che sussistano le condizioni per l’applicazione, da parte dell’AIFA, delle procedure art. 3 del decreto-legge del 20 marzo 2014, n.36, poi convertito in legge a maggio 2014), “al fine di consentire, il più presto possibile, l’impiego dell’Avastin per il trattamento della degenerazione maculare senile”. Inoltre, lo stesso Consiglio auspica, accanto alla registrazione dell’Avastin ad uso oftalmico, “l’immediata attivazione da parte di AIFA di idonei strumenti di ‘monitoraggio’ raccomandando, infine, “in considerazione dell’evolutività scientifica e assistenziale delle maculopatie, l’utilizzo appropriato dei suddetti farmaci in centri di alta specializzazione”.

Prospettive future di trattamento dell’AMD

Una delle possibili prospettive future della terapia potrà essere basata su studi a carattere genetico. Inoltre, molto promettente è l’impiego di cellule staminali (in particolare quelle adulte riprogrammate), con cui negli anni a venire si potrà probabilmente rigenerare la retina. Risultati incoraggianti sono stati ottenuti, ad esempio, nel caso dell’AMD secca negli USA, ma al momento in cui scriviamo i test sono stati effettuati esclusivamente su cavie animali e si attendono ancora i risultati sull’uomo (approfondisci).

Altri gruppi di ricerca si stanno concentrando sugli accumuli proteici dannosi per la retina (drusen), cercando di rendere più efficiente la loro rimozione (autofagia). Tali meccanismi, tuttavia, necessitano di ulteriori studi.

Bisogna però considerare che, essendo l’AMD una malattia retinica dovuta a diversi fattori, una cura risolutiva (specialmente per la forma secca) non è facile da mettere a punto. Tuttavia, si stanno attuando con un certo successo anche tecniche di stimolazione retinica dei fotorecettori sani che circondano la macula, mediante il biofeedback, che si basa sull’impiego d’impulsi luminosi.

Un discorso a parte meritano gli ausili per gli ipovedenti quali i videoingranditori (disponibili oggi in molti centri ospedalieri). E’ importante diagnosticare precocemente i primi sintomi della degenerazione maculare legata all’età, in modo da attuare le misure preventive più idonee. Tuttavia i pazienti devono comprendere che si tratta di una patologia degenerativa e che, come tale, può lentamente aggravarsi nel tempo; talvolta tutte le terapie effettuate potrebbero non essere sufficienti e, quindi, è il caso di non avere aspettative eccessive.

UN CORRETTO STILE DI VITA: ALIMENTAZIONE VARIA, NIENTE FUMO E PIU’ ESERCIZIO FISICO

amd_alliance-logo-2.jpgAll’aumentare dell’incidenza della degenerazione maculare legata all’età è cresciuto anche il numero degli studi effettuati.

Eliminare il fumo è la prima buona pratica di vita. Inoltre controlli accurati del sistema cardiovascolare sono assolutamente raccomandabili. È stato stimato che in chi fuma il rischio di essere colpiti da AMD aumenta fino a tre volte. [[Si veda ad esempio: Evans JR et al, “28,000 cases of age related macular degeneration causing visual loss in people aged 75 years and above in the UK may be attributable to smoking”, British Journal of Ophthalmology (2005)]]

Non va assolutamente trascurato l’esercizio fisico moderato, importante ad ogni età. Numerosi studi hanno ipotizzato, infatti, che per chi lo pratica regolarmente sia più difficile essere colpiti dalla degenerazione maculare legata all’età o, se questo avviene, la sua evoluzione è generalmente più lenta. Infine, non bisogna assolutamente trascurare il fatto che i raggi ultravioletti possano contribuire a danneggiare la macula: specialmente se si sono avuti altri casi di AMD in famiglia, bisogna prestare più attenzione al corretto uso di occhiali scuri con lenti a norma di legge (vedi consigli utili). Uno dei principali fattori di rischio potrebbe proprio essere l’esposizione prolungata e cumulativa ai raggi ultravioletti, oltre naturalmente all’età, dunque può essere importante far uso di filtri di buona qualità.

Leggi l’opuscolo sull’AMD

Carta dei diritti del paziente colpito da maculopatia.