Uscire dopo quasi due mesi di chiusura e isolamento a causa del coronavirus può provocare paura e momenti di ansia. Le persone potrebbero sperimentare quella che viene definita “sindrome della capanna”. Stefania Fortini, Vicedirettore del Polo Nazionale Ipovisione e Riabilitazione visiva, spiega come fronteggiare questa nuova difficoltà portata dal Covid-19.
La sindrome della capanna è una condizione manifestatasi per la prima volta agli inizi del Novecento, all’epoca della corsa all’oro negli Stati Uniti, durante la quale i cercatori erano costretti a passare mesi interi all’interno di una capanna per poi provare sentimenti di paura per il ritorno alla civiltà. Questa condizione sembra ripresentarsi nuovamente oggi con la comparsa del nuovo coronavirus SARS-CoV-2. A spiegarlo è Stefania Fortini, Psicologa, Psicoterapeuta e Vicedirettore del Polo Nazionale Ipovisione e Riabilitazione visiva.
“La sindrome della capanna è una reazione psicologica conseguente ad una condizione specifica e ben definita, ovvero un lungo periodo di isolamento sociale quale, appunto, quello appena vissuto”, racconta la dottoressa. “Può interessare tutte le fasce d’età, dai bambini agli anziani ed è un fenomeno psicologico provocato dallo stress di ritornare in strada: una conseguenza dell’ansia, della paura e dell’angoscia di uscire da un ambiente confinato e sicuro, come quello della propria abitazione. Questa sindrome provoca un disorientamento eccessivo dovuto all’idea di riprendere contatto con il mondo esterno e, quindi, include la paura di poter contrarre il virus, la difficoltà a riprendere i ritmi quotidiani, oppure l’ansia legata alle limitazioni comportamentali tuttora in vigore”.
Come si manifesta la sindrome della capanna?
I sintomi più comuni sono:
- episodi di irritabilità;
- tristezza, paura, angoscia;
- difficoltà ad alzarsi al mattino, senso di stanchezza generale, bisogno di riposare spesso;
- difficoltà di concentrazione e di memoria;
- demotivazione.
Quali sono le strategie per superare questa sindrome?
Il normalizzarsi della situazione esterna o, comunque, l’adattamento dovrebbero far sì che pian, piano la sindrome scompaia. Tuttavia alcune strategie possono facilitare il recupero. Vediamo quali sono:
- Accettiamo le emozioni. È normale che il lungo isolamento abbia inciso emotivamente, quindi sono del tutto naturali le emozioni vissute in questo periodo.
- Stabiliamo degli obiettivi in modo da calendarizzare la nostra giornata e limitare pensieri tristi e preoccupazioni.
- Prendiamoci cura di noi con piccoli, piacevoli gesti.
- Ripartiamo dalle piccole cose.
- Cerchiamo di trasformare in positivo quanto è accaduto. Il lungo isolamento, sicuramente, ha fatto riflettere sul senso della vita e sul valore dei rapporti umani rispetto alla dimensione del superfluo.
- Diamo tempo al tempo. Non imponiamoci di uscire se oggi non ne abbiamo voglia. Domani, sicuramente, saremo più motivati e sicuri nel farlo.
Come già anticipato, la sindrome della capanna tende a risolversi naturalmente, ma se i sintomi dovessero permanere anche nei mesi a venire è consigliabile rivolgersi ad uno psicologo/psicoterapeuta per un sostegno adeguato.
Qual è la ripresa per gli ipovedenti?
Rispetto al quadro descritto, gli ipovedenti sperimentano sicuramente una condizione più complessa. La difficoltà a riprendere la quotidianità è legata soprattutto all’incertezza visiva, alle fluttuazioni del visus che queste persone sperimentano come caratteristica dell’ipovisione. Sono poi numerosi i fattori che possono incidere: i cambiamenti di luminosità, le condizioni atmosferiche, i livelli di glicemia nei diabetici.
A questa condizione di partenza si aggiunge la possibilità che nei mesi di lockdown i pazienti non abbiano potuto effettuare visite di controllo e, pertanto, abbiano difficoltà a riconoscere se il vedere “più annebbiato” sia legato o meno ad un peggioramento della malattia oculare. Da qui il senso di disorientamento profondo che sperimentano.
Il sostegno psicologico garantito da Polo Nazionale Ipovisione e Riabilitazione visiva durante la quarantena, sia attraverso colloqui telefonici individuali che con gli incontri dei gruppi di auto-mutuo aiuto da remoto, si è rivelato utile per non far percepire un senso di abbandono. Il monitoraggio pressoché costante ha avuto poi ulteriori finalità, come la possibilità di ‘tenere il polso’ dello stato emotivo dei pazienti, di evitare la cronicizzazione di alcune percezioni e di supportare la preparazione delle persone al momento della ripresa.