Storia di un autore che ha imparato a guardare il mondo oltre la vista
“Avevo perso la vista e la cosa che più mi dispiaceva era non poter guardare mia madre quando mi sorrideva.”
(da Falco – Breve diario di un equilibrista)
Ci sono storie che non nascono per essere raccontate. Stanno ferme, a lungo, come un nodo tra gola e stomaco. Poi, un giorno, trovano la forma giusta per uscire. “Falco – Breve diario di un equilibrista” è una di queste. La storia vera di un bambino che perde la vista a cinque anni e impara a convivere, da allora, con un modo diverso di percepire il mondo. Ma è anche – e soprattutto – il racconto di un uomo che sceglie di restituire quel vissuto con ironia, consapevolezza e una forza narrativa che non chiede compassione.
Innanzitutto, perché ha deciso di riaggiornare il suo diario “Diario di un equilibrista” e quali modifiche ha apportato?
Ho deciso di riaggiornare il diario per fornire particolari più completi e mettere in risalto dettagli che non erano stati inseriti nella prima stesura. Più che un semplice aggiornamento, l’obiettivo era anche fornire un contesto storico più ampio, poiché certe situazioni o atteggiamenti dell’epoca potrebbero non essere comprensibili oggi.
Potrebbe farci qualche esempio di questi contesti o dettagli aggiunti?
Sì, per esempio, il diario riflette la società degli anni ’60, quando ero bambino, un’epoca con un modo di comunicare molto diverso da adesso. Le tipologie di famiglie erano diverse: le donne erano spesso casalinghe, a differenza di oggi. Anche il modo di analizzare la malattia era più superficiale, a causa di una minore sensibilità e della mancanza di strumenti adeguati. La comunicazione avveniva nel cortile, a scuola o per telefono, molto diverso da oggi.
Nell’ultima stesura, il protagonista si chiama “Falco”. Come mai questa scelta?
Ho voluto rendere il racconto meno personale, creando un “alter ego”. Il nome “Falco” è stato scelto per evocare curiosità e dare un’impronta legata alla vista, dato che il falco è un uccello associato a una vista potente, ed inoltre questo nome era quello di un capo indiano la cui storia mi è molto piaciuta
Parlando della malattia, come l’ha vissuta e come ha scelto di raccontarla nel diario?
Ho vissuto la malattia in modo diverso a seconda dell’età. Quando è insorta, a circa 5 anni, l’ho vissuta con l’attesa di guarire, senza l’angoscia o le proiezioni future tipiche di un adulto. Poi, da un momento di cecità totale, ho riacquistato parzialmente la vista, arrivando ad avere un campo visivo però limitato al 2%. Sebbene questo 2% comporta evidenti limitazioni, tanto che risulto essere cieco assoluto, dal punto di vista pratico mi ha però consentito di avere un minimo di autonomia.
Come ha affrontato queste limitazioni nel corso della vita e come si è adattato?
Ho descritto in modo più dettagliato il processo di adattamento nel tempo alla malattia e di consapevolezza dei limiti che mi avrebbe imposto. Da bambino, certe cose ti limitano e condizionano fino a un certo punto, ma da adulto i limiti diventano più evidenti e più difficili da affrontare. Ad esempio, non potevo giocare a calcetto di notte con gli amici, andare a prendere con la macchina un amico o una ragazza, perché anche se per evidente carenza di controlli ero riuscito a in qualche modo a prendere la patente, guidare era comunque un azzardo, soprattutto di notte quando praticamente non vedevo nulla. Poi dopo aver urtato tante volte ostacoli che non vedevo, ho iniziato a cambiare postura e modo di camminare, con i muscoli in tensione per non farmi male. Il mio carattere, da impulsivo, è diventato riflessivo. Ho imparato ad affrontare le cose conoscendo i miei limiti e sviluppando altre possibilità di percezione, utilizzando altri sensi.
Nel suo racconto, fa spesso riferimento all’uso di sensi alternativi. Potrebbe spiegarci meglio questo aspetto?
Ad esempio, se mi cade qualcosa a terra, diventa molto faticoso trovarla. Per prima cosa uso l’udito per orientarmi e individuare la zona dove l’oggetto è caduto, quindi più avanti e a destra se il rumore veniva da li, poi uso il tatto muovendo piano piano i piedi intorno alla zona dove ho sentito il rumore, quindi se non urtato con i piedi l’oggetto, avendo solo un campo visivo del 2% “scannerizzo” la zona, esaminando ogni mattonella del pavimento fino a quando non trovo l’oggetto. Questo processo può provocare ansia, specialmente quando e buio e quando non conosco ancora gli ambienti dove vado. Per questo motivo faccio fatica a usare un ascensore che non conosco, perché per me è un problema trovare subito la tastiera. Quando poi per lavoro, dovevo raggiungere luoghi sconosciuti, cercavo di arrivare prima per abituarmi all’ambiente, per poi scannerizzandolo come potevo, in modo da memorizzare dove si trovavano gli ostacoli, il tavolo, le sedia, ecc..
Ha riscontrato forme di discriminazione nel corso della sua vita, specialmente nel mondo del lavoro?
Purtroppo le forme di discriminazione sono spesso automatiche e inconsapevoli. Mi sono accorto che parlare del mio handicap non mi aiutava né nella socializzazione né nel lavoro. Ai miei tempi, per una persona con disabilità visiva, l’unica opportunità lavorativa era spesso fare il centralinista. Nonostante fossi brillante, ho avuto difficoltà a trovare un lavoro dove potevo gestire il mio handicap senza pagarne lo scotto, anche se poi, per forza di cose, ho dovuto pagare una persona che mi accompagnasse in giro, in quanto alla fine, anche a causa degli studi che ho fatto il mio lavoro era dinamico e richiedeva l’uso dell’auto. In tal senso, la scelta degli studi, influenzata da mio padre, non si è rivelata la più adatta ai miei limiti.
Nel diario c’è una parte intitolata “Le ombre”, dove lei critica duramente le carenze urbanistiche che penalizzano le persone con disabilità. C’è stato un episodio scatenante o è stata una somma di esperienze?
Piu che dura la definirei assertiva. È qualcosa che ho constatato direttamente, ma chi non ha un handicap spesso non percepisce, qualcosa che non è uguale da per tutto, infatti viaggiando mi sono reso conto che in alcuni paesi c’è maggiore sensibilità. A Roma, c’è una forte indisciplina. Le strutture spesso non sono adatte ai disabili: condomini piene di barriere architettoniche, farmacie con gradini, porte da spingere, corridoi inaccessibili e ascensori troppo piccoli per una sedia a rotelle. Anche se con il tempo c’è maggiore attenzione nel rendere la città senza barriere, la situazione è ancora grave e chi ha un handicap non si sente in grado di muoversi liberamente.
In relazione a questo, come vede il cambiamento della cultura sociale riguardo alla disabilità?
Trovo che ci sia ancora molta strada da fare. Banalmente, parcheggiare una bicicletta o un monopattino sul marciapiede può bloccare il passaggio di una persona in carrozzina. Le persone dovrebbero provare a muoversi per un giorno con una sedia a rotelle o bendate per rendersi conto delle difficoltà. Spesso, la sensibilità aumenta solo quando le cose ci toccano direttamente. Nonostante oggi vi siano anche le giornate dedicate ai disabili, queste spesso rimangono ferme a buoni propositi, a cui non seguono pratiche concrete e radicate nella quotidianità. E quando questo accade, è importante darvi il risalto che meritano.
Qual è lo scopo principale della pubblicazione del suo diario? È stata forse un’esperienza terapeutica?
Più che terapeutico, per me è stato doloroso e a tratti uno “sfogo”. Il vero scopo è aprire a una maggiore consapevolezza e fornire un messaggio costruttivo. Spero che il diario possa essere utile soprattutto ai genitori di figli con disabilità, aiutandoli a guidare i propri figli nelle scelte, a farli diventare consapevoli dei propri limiti e a trovare una strada giusta, interiorizzando la forza necessaria per integrarsi meglio nella società. È importante condividere le proprie fragilità e vulnerabilità, cosa insolita nella società odierna dove sui social media si mostra solo il positivo.
Il diario offre anche uno spaccato interessante del periodo in cui è cresciuto. Potrebbe descriverci brevemente quell’epoca?
Sono cresciuto negli anni ’60 e ’70, un’epoca molto diversa. C’erano i telefoni a gettoni, la televisione in bianco e nero con il telegiornale solo due volte al giorno, e le notizie dal mondo arrivavano con molto ritardo. Non c’erano computer o telefonini invasivi. Incontravi ancora mutilati di guerra e c’erano lavori che oggi sono scomparsi, come la perforatrice di schede, lo stenografo o il dattilografo. Era un’epoca “effervescente” di cambiamento ma anche una società che è diventata “dura” durante gli anni di piombo.
Lei intitola il suo diario “Diario di un equilibrista”. Si sente ancora un equilibrista oggi? E cosa significa per lei questa metafora?
Credo che tutti siamo equilibristi nella vita, ma io mi sento “un po’ più degli altri”. Essere un equilibrista deriva dall’esercizio, dalla dedizione e, in parte, dall’ossessione. Per me diventare un equilibrista è stato necessario per andare avanti, per la sopravvivenza, un modo per affrontare le difficoltà e la burocrazia, un modo per superare da solo quegli ostacoli che per molti non lo sono. L’immagine dell’equilibrista che cammina su un filo serve a suggerire al lettore che anche lui potrebbe esserlo senza rendersene conto.